Ricordo ancora che faceva freddo quel dicembre. Ricordo la confusione, le raffiche di mitra. Rivedo il corpo di Gino, steso sulla piazza del paese con le braccia larghe come un Cristo sulla croce. Ricordo gli ordini dei soldati tedeschi: ordini perentori, violenti, disumani. Ricordo mio padre rassegnato e ricordo l’ultimo sguardo di mia madre.
Maria
non voleva che guardassi. Non voleva lasciarmi vicino alla grata dello
scantinato dove ci eravamo nascosti. Continuava a tirami indietro facendomi
ogni volta perdere l’equilibrio sui sacchi di farina sottratti agli ammassi e
accatastati sotto la piccola feritoia da cui assistevo inerme.
I
miei occhi di bambino non capivano bene cosa stesse accadendo, ma nel fondo
dell’anima, era tutto chiaro. Non avrei più rivisto la mia famiglia viva. Solo
nei miei sogni si sarebbe ricomposta, come in un puzzle le cui tessere sbiadiscono con l’approssimarsi del mattino.
Ricordo
che non riuscivo a staccare le mani dalle sbarre di quella finestra che mi
tenevano lontano dai miei genitori, al sicuro e solo. Maria, La figlia del
commissario prefettizio, piangeva e mi pregava di staccarmi da lì, ma io non ci
riuscivo.