martedì 29 marzo 2016

Incroci di civiltà: appuntamento a Venezia

Segnaliamo l'importante festival letterario che si svolgerà nei prossimo giorni a Venezia: "Incroci di civiltà".


Incroci di Civiltà, Festival Internazionale di letteratura a Venezia, è un progetto promosso dall’Università Ca’ Foscari e dal Comune di Venezia - Assessorato alle Produzioni Culturali.
Il festival, nato nel 2008, celebra la lunghissima tradizione di Venezia come crocevia di culture, persone, lingue e tradizioni mettendo in dialogo gli autori e i loro lettori intorno ai temi urgenti della contemporaneità. La sensazione condivisa è che Venezia abbia trovato un nuovo importante punto di riferimento nella sua vita culturale e che Incroci di civiltà stia colmando il vuoto che vedeva la letteratura come unica forma d'arte non rappresentata da una manifestazione di respiro internazionale. Il festival, inoltre, coinvolge a tutt’oggi alcune delle più importanti istituzioni culturali cittadine, come Fondazione Musei Civici, Fondazione Querini Stampalia e Palazzo Grassi.
La manifestazione ha consolidato la sua presenza nel panorama letterario nazionale, dove è riconosciuta per la sua specialissima fisionomia e il suo respiro internazionale.
Durante le passate edizioni sono stati graditi ospiti, scrittori come Yves Bonnefoy, Salman Rushdie, Orhan Pamuk, Javier Marias, Elias Khuri, Bi Feiyu, Juan Villoro, Ludmila Ulitksaya, Vikram Seth, Antonia Byatt, Cees Nooteboom, Amitav Ghosh, Ko Un, Amélie Nothomb, Caryl Phillips, Hanif Kureishi e Rita Dove.

La nona edizione si terrà dal 30 marzo al 2 aprile 2016.
Fondazione Università Ca’ Foscari Venezia
Tel: 041 2346959
Mail: info@incrocidicivilta.org
Sito web: www.incrocidicivilta.org

venerdì 25 marzo 2016

Aria di Giuseppe Novellino

Quella che pubblichiamo è la storia di una cattiva digestione... Occhio a mangiare pesante prima di mettervi in viaggio perché potreste non riconoscere il Pippo.


I



   - Domani devo andare a Tirano, con il carro – annunciò Giacomo.
   - Fossi in te, non ci andrei – disse Dino.
   - Perché?
   - Perché domani passa il Pippo.
   - Ma è passato ieri.
   - No, ti sbagli: l’altro ieri.
   Giacomo divenne pensieroso, estrasse dalla logora giacca un sacchetto di tabacco e le cartine. Silenziosamente si preparò una sigaretta, mentre l’amico guardava nel bicchiere semivuoto che teneva fra le mani. Solo due lampadine illuminavano il locale. Nella piccola osteria, quella sera di novembre, non c’erano che loro due, come avventori.
   La Carla, una ragazzetta di dodici o tredici anni, stava al banco e asciugava pigramente dei bicchieri. Dopo l’ora di cena ci sarebbe stato più movimento. Il coprifuoco non interessava un paesino come Stazzona. 
   - Ma! – fece Giacomo, dopo avere acceso la sigaretta. – A pensarci bene, che cosa me ne frega del Pippo?
   Dino vuotò il fondo del bicchiere, fece schioccare la lingua e disse:  - Ah, certo, non sei un obiettivo militare, ma con quello non si può mai sapere.
Giacomo scrollò il capo. - Un carro trainato da un cavallo che sta in piedi per pietà e misericordia…
   - Ma il Pippo mitraglia tutto quello che si muove.
   - Solo quando gli gira, però.
   Dino strinse le labbra, dubbioso.
   - La settimana scorsa – disse ancora Giacomo dopo un prolungato silenzio, - è passato e ripassato sopra il treno, dalle parti di Chiuro, ma… niente.
   - Forse non aveva più munizioni.
   - O si è limitato a fotografare.
   - Beh, può essere. Infatti dicono che è un ricognitore.
   - Parte dalla Toscana, o giù di lì. E viene a rompere le scatole qui da noi.
   - Probabilmente deve tenere sotto controllo questa zona di confine
   - E all'occasione dare man forte ai partigiani del Mortirolo.
   Giacomo portò alle labbra il suo bicchiere che non era stato ancora intaccato. Mandò giù un sorso di vinello e aspirò un’avida boccata di fumo.
   - Io a Tirano ci devo proprio andare – disse. – È un bel carico di legna che devo consegnare ai due vecchi Gosatti, altrimenti moriranno di freddo, quest’inverno. È già bella e pronta per essere messa nel fuoco. E i soldi che mi daranno in cambio servono per il vestiario, a me, alla mia Maria e alle mie figlie.
   - Gosatti, il professore? – volle sapere l’amico.
   - Sì, è il Gosatti Pietro, professore alle Magistrali, in pensione. Adesso scrive libri, dei bei libroni sulla storia di Bormio e di Tirano.
   - Ah, sì, un cervellone! – sentenziò Dino.
   - Conosce mia moglie, perché anche lei è di Tirano… ed è una sua lontana parente.
   - E tu gli fornisci la legna.
   - Della mia selva lungo l'Adda. Poca roba, ma buona – assicurò Giacomo.
   - Ah, ti credo: robinie e castagni.
   Giacomo spense il mozzicone nel logoro portacenere e si mise le mani in tasca.
   Sbuffò.
   Dino si era messo a giocherellare con il bicchiere vuoto.


II
  
   
  Il mattino dopo, faceva un freddo cane. La brina imbiancava i prati. Dai tetti delle case uscivano pennacchi di fumo azzurrognolo. Un sottile banco di nebbia avvolgeva il paesello.
   - Ti ho preparato il chiscio - disse Maria, vedendo entrare il marito nell'ampio locale affumicato che faceva da cucina e da soggiorno. Nell'angolo c'era un vecchio e nero camino, con un fuoco che scoppiettava allegramente.
   Giacomo si sfregava le mani, stringendosi nelle spalle, tutto infreddolito. - Brava, Maria, sento l'odore.
   - Tutto a posto?
   - Sì, ho attaccato il cavallo. Fra mezz'ora, al più tardi, mi metterò sulla strada.   
   Maria stava scodellando la tonda frittella di grano saraceno, cotta nel grasso di maiale. Mandava un buon odore, grazie alle croste di formaggio che si erano abbrustolite in superficie.
   - Mi ci vuole, questa mattina - fece Giacomo, sedendosi. Dedicò a Maria uno sguardo di riconoscenza.
   Sua moglie era diventata magra come una saracca, ma possedeva due gambe muscolose che reggevano un corpo ancora flessuoso. Le era affezionato, la chiamava scherzosamente "la mia vecchia ciabatta"; e se lei fingeva di offendersi, la prendeva per un braccio e le appioppava una bella pacca sul culo ancora sodo.
   Giacomo cominciò a mangiare il chiscio, rompendolo a pezzettini con la forchetta. Era buono e lui masticava con gusto.
   - Elisabetta dorme ancora? – domandò con la bocca piena. Era la figlia preferita, una graziosa ragazza di diciassette anni, la più piccola.
   - Sì - rispose Maria – è ancora a letto con la nonna.
   L'altra, Gabriella, una ventenne già fidanzata, si era alzata da un pezzo. Lui l'aveva vista nel pollaio, pochi minuti prima. Gli aveva sempre fatto una certa soggezione, con quel suo fare serio e scontroso. Non vedeva l'ora che si maritasse.
   - È buono questo chiscio.
   - L'ho fatto con la farina avanzata nel sacco bianco - disse lei, aprendo il rubinetto del lavandino.
   Lui smise di masticare e rimase con il boccone in bocca. - Non avrai preso quella farina di segale andata a male, spero. È in un sacco bianco, appunto.
   Maria non rispose subito. Guidava con il palmo della mano il getto d'acqua per sciacquare il lavandino. Poi si girò - No, stai tranquillo, ho preso la farina giusta. - Ma a lui parve di vedere sul volto della donna un'ombra di dubbio, subito fugata.

   - Quella può essere segale cornuta… fa male - disse lui - devo  ricordarmi di buttarla via.
   Maria si strinse nelle spalle. - Mia nonna diceva che fa solo vedere cose che non ci sono.
   Lui inforcò un altro boccone. Lo rigirò sulla forchetta, poi se lo ficcò in bocca.
   - Comunque è una delizia… e con questo freddo è un buon mangiare.
   - Tornerai per mezzogiorno? – volle sapere Maria.
   - Penso proprio di sì. Devo consegnare la legna al Gosatti e… via, me ne torno subito a casa.
   - Di questi tempi non è bello stare troppo in giro.
   - Puoi ben dirlo, Maria.
   - Magari passano i fascisti e ti scambiano per un partigiano.
   - Con il carretto?
   - Quelli non vanno tanto per il sottile e se vedono uno che non gli va a genio…
   - Ma io ti sembro uno sospetto?
   La donna sorrise. - No, tu no. Ma torna a casa subito, hai capito?
   - Ho capito, ho capito.
   Giacomo addentò l'ultimo boccone.


III
    

   - Giornata fredda, eh! - lo apostrofò Pino, un vecchietto che abitava nell'ultima casa del paese. Portava un secchio con del mangime per le galline.
   - Ormai stiamo andando verso il peggio - rispose Giacomo dal carro. Teneva le redini in mano e cercava di spronare il suo ronzino, che quella mattina sembrava più pigro del solito. - Le giornate si stanno accorciando e la brina non ci lascerà più.
   - Vai a Tirano? – domandò l’anziano.
   - Sì, devo consegnare questo carico di legna.
   - Buona, a quanto vedo.
   - Sicuro: robinia e castagno.
   Pino gli fece un gesto di saluto.
   - Buona giornata anche a te.
   Solo quattro chilometri e mezzo, ma con quel carretto era sempre una bella passeggiata, andata e ritorno. Ma ce l'avrebbe fatta in mattinata. Lo aveva promesso alla sua Maria.
    Si mise sulla stretta carreggiata in terra battuta che costeggiava l'Adda. Il carro procedeva lentamente, traballando qua e là su ciottoli e avvallamenti del terreno. Ogni tanto sembrava scivolare di lato per avere messo le ruote nei solchi induriti, prodotti dai traini del giorno prima. Su quella stradicciola non passavano automobili, solo carretti, persone a piedi o qualche animale. Alcuni giorni prima, in quel punto, era transitata una motocicletta della Tot. Il soldato tedesco che la montava aveva occhialoni scuri e sembrava divertirsi a correre sul terreno accidentato.
   Giacomo procedeva lentamente da circa dieci minuti, quando si accorse di provare una strana sonnolenza. Forse era il ritmo monotono dell’andatura, o forse l'ondeggiare della coda dell'animale che produceva una specie di ipnosi; fatto sta che lui si trovò ben presto a lottare contro una voglia impellente di chiudere gli occhi.
   Eppure quella notte aveva dormito bene, otto ore filate.
   La testa gli cadde sulle spalle. Subito si riscosse, rendendosi conto che non riusciva più a resistere al sonno.
   Cullato dal monotono cigolio del carro, pensò che forse era tutta colpa del chiscio che gli aveva preparato la sua Maria. Qualcuno poteva non digerire, di buon mattino, quella tipica frittela di grano saraceno con croste di formaggio, fritta nello strutto. Ma lui era abituato.
   Stava proprio per arrendersi alla sonnolenza, quando udì, alle sue spalle, un rumore assordante. Sembrava il ruggito di un grosso animale delle foreste africane.
   Si riscosse dal torpore. Tenendo le redini con una mano sola si girò e guardò in alto, nel cielo.
   Un enorme uccello stava planando su di lui. Sembrava una creatura uscita dalle pagine di una storia fantastica, l'orrida bestia volante creata dalla mente di uno scrittore pazzo.
   Passò veloce sopra di lui, sibilando. Poi riprese quota, sopra le prime case di Tirano.  Per un momento Giacomo, impietrito, ebbe la sensazione che l'uccello virasse di lato per riabbassarsi su di lui, ghermirlo con quegli artigli terrificanti che riverberavano al sole. Ma fu solo una fuggevole impressione. Il mostro, sbattendo due enormi ali di pipistrello, continuava a prendere quota verso il massiccio del Mortirolo.
   - Ehi, del carro!
   La voce veniva dal greto del fiume. Apparve una figura di uomo con un cappellaccio a larghe tese. In mano teneva quella che sembrava una canna da pesca. Era apparso da dietro un cespuglio di sambuco.
   Il carro intanto si era arrestato. Il pescatore si avvicinò.
   - Per un momento ho avuto paura, sapete? – disse il pescatore.
   Giacomo era ancora stordito. Emise una specie di grugnito. - Cos’era?
   - Il Pippo. L'ho visto arrivare, d’improvviso. Ho pensato che mitragliasse. Dicono che a volte tira su tutto quello che si muove.
   - Ma siete sicuro… Era proprio il P-Pippo?
   - E cosa se no.
   - Sbatteva le ali…
-  Come un uccello… Avete le traveggole?
- Chi, io?
- Siete bianco come un morto. E lo credo! L'avete scampata bella. Sapete cosa vi dico?
- Che cosa?
- Toglietevi dalla strada – lo consigliò il pescatore. - Quello può tornare, e magari…
- Avete ragione.
 Spinto da una nuova energia spronò il ronzino e cercò di percorrere il più velocemente possibile il tratto che gli rimaneva prima di entrare nella cittadina. Nello stomaco gli danzavano i resti mal digeriti del chiscio.
   Che la moglie avesse usato farina guasta? La segale cornuta?
   Scacciò il pensiero e si concentrò sulla strada.




  

venerdì 4 marzo 2016

Mille chilometri di Giuseppe Novellino

Come ti capisco Giuseppe! Non so se questo tuo racconto sia autobiografico... Suppongo lo sia. Benché di qualche anno più giovane di te, quei viaggi verso la "Terronia", in estate, li ho compiuti anche io. Non erano gli anni Sessanta, ma la fine dei Settanta e l'inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, e l'auto che utilizzavamo per arrivare fino in Lucania - dove Cristo non mise mai piede - era una Fiat 127 di un colore blu molto cupo. Alla macchina le avevamo anche dato un nome: si chiamava Isotta come la protagonista della canzone di Pippo Franco che a quei tempi andava di moda tra i bambini. Ricordo che quando cambiammo auto né io, né mia madre, né mio fratello riuscimmo a trattenere le lacrime. L'unico entusiasta era mio padre che, finalmente, dopo tanti sacrifici, era riuscito ad acquistare una Peugeot 309... Agli occhi di mio padre la nuova macchina era una deluxe. 


       
     L’estate stava per cominciare e il viaggio era ormai nell’aria.
     I miei pensieri si rivolgevano solo a ciò che ci aspettava: l’impresa di attraversare l’Italia in Cinquecento. L’avventura di Marco Polo mi sembrava una bazzecola al confronto.

     Papà tornò a casa, una calda sera di giugno, con una strana espressione dipinta sul volto. Era un misto di complicità, di riflessione e di suspense.
     - Allora, che ti hanno detto? – chiese la mamma, mentre rimestava il minestrone.
     Lui si sedette al tavolo di cucina e sospirò. Rimase a lungo in silenzio.
     Mio fratello Lorenzo e io stavamo giocando a dama. Ci interrompemmo e lo guardammo come se fosse un giudice in procinto di emettere la sentenza.
     - Il signor Sertori – disse -  mi ha assicurato… Basta andare con prudenza, insomma, senza affaticarla. Ogni settanta-ottanta chilometri ci fermeremo per far respirare il motore. La Cinquecento potrebbe portarci fino a Capo Nord.
     Noi invece andavamo a sud. Destinazione: Alta Irpinia, terra d’origine di mio padre. Da Sondrio a Lacedonia, un viaggio di mille chilometri.
     Era il giugno del 1961. La mia famiglia si accingeva a vivere la prima villeggiatura in automobile. Mio padre era maestro elementare, aveva l’estate tutta per sé.
     La Fiat Cinquecento era nuova di zecca, verde prato, targata SO-15797: uno scatolino dalla vernice e dalle cromature fiammanti, con un odore di plastica all’interno che ne garantiva la verginità. Anche per noi era arrivata, dunque, la libertà su quattro ruote.

    E venne il giorno della partenza. Io e i miei fratelli eravamo elettrizzati. Mamma e papà facevano fatica a tenerci a freno, con tutta l’ansia di non dimenticare qualcosa. Dovevamo attraversare l’Italia in gran parte della sua lunghezza, e poi ci aspettavano due mesi di soggiorno in quel paese sperduto sulle gialle colline dell’Irpinia.
     Ci mettemmo in macchina alle sei e trenta del mattino. Dopo quasi tre ore raggiungemmo Lecco, distante ottantatre chilometri. La tortuosa strada lungo la sponda orientale del lago di Como era, anche per i tempi, trafficata, e ci aveva costretto a un’andatura da lumaca. Mio padre aveva voluto attenersi scrupolosamente ai consigli della concessionaria Sertori: dopo settanta chilometri, si era fermato per quasi mezzora, aveva aperto lo sportello posteriore e aveva fatto riposare il motore.
     Viaggiavamo scomodi, ma felici. La macchina era sovraccarica, con quel muro di valige legate al portapacchi. Sul sedile anteriore, mia madre teneva in braccio Marco, il fratellino di tre anni. Su quello posteriore, mia sorella Elisabetta, io e Lorenzo. Stavo seduto nel mezzo perché volevo vedere la strada, e poi mi piaceva osservare le manovre che papà faceva nella guida.
     Ma presto venne la stanchezza. Il ronzare del motore mi metteva sonnolenza, accentuata dal caldo che i vetri abbassati non riuscivano a mitigare. I miei fratelli, costretti contro i finestrini, ogni tanto manifestavano insofferenza. Mia madre faceva di tutto per tenere buono Marco.
     Verso le tre del pomeriggio giungemmo alla prima meta del viaggio: una cascina presso Mantova, dove viveva una cugina di mia madre.
     - Benvenuti – ci accolsero lei e il marito.
     Mio padre era stravolto per la guida. Ricambiò i saluti e fece notare, con evidente orgoglio, la nuova vetturetta che ci aveva portati sani e salvi fin lì.
     - Quanto pensi di impiegare per arrivare al tuo paese, Antonio? – chiese Elvia, la cugina di mia madre. Non aveva la minima idea dove fosse Lacedonia. Sapeva solo che si trovava in Terronia e che i chilometri si dovevano contare almeno nell’ordine delle migliaia.
     - Per domani sera – rispose con sicurezza papà.
     Così ci riposammo e godemmo della calda ospitalità della cascina.
     Io e i miei fratelli facemmo una certa amicizia con i figli di Elvia. Mi rimase impressa la loro lingua (il dialetto mantovano), che mi faceva l’effetto di un idioma straniero. Mantova mi sembrava distante da Sondrio, quasi come l’Italia dall’America.

     Il giorno dopo, prestissimo, ci rimettemmo in marcia.
     Mio padre cantava La montanara e O sole mio. Teneva il volante con una mano e con l’altra gesticolava al ritmo della musica. Anche noi eravamo allegri. Marco, sulle ginocchia della mamma, si muoveva come un folletto.
     A lungo andare, i rettifili del Ferrarese e del Ravennate ci provocarono una torbida sonnolenza. L’asfalto riverberava. Fughe di pioppi e distese di campi rendevano monotono il nostro procedere. Ogni ottanta chilometri ci fermavamo e uscivamo per sgranchire le gambe. Mi sentivo come una sardina tolta dalla scatola. Prima di arrivare a Rimini, mio padre si esibì nel quarto sorpasso di un camion. Gli altri tre risalivano al giorno prima, lungo le statali di Bergamo e Brescia.
     - Ce la fai? – chiese con apprensione mia madre, sporgendosi a sinistra per vedere a sua volta se la strada fosse libera.
     - Tranquilla, Wanda.
     - Arriva una macchina, stai attento! – gridò lei.
     - Sì… è passata. Adesso ci provo.
     Con uno strappone scalò dalla quarta alla terza, fece tossire il motore, e via…
     Ma il rettilineo stava finendo e la piccola automobile arrancava disperatamente per rientrare nella sua corsia. Ce la facemmo per un pelo. Dalla curva sbucò una Fiat 1400, che ci incrociò con un rabbioso e lacerante suono di clacson.
     Poi vedemmo il mare.

     Il viaggio per un po’ divenne più piacevole, ma ben presto ritornarono la noia e la fatica.
     Bisognava fare tutti quei percorsi urbani. Non c’erano tangenziali, a quell’epoca, nemmeno circonvallazioni. Le cittadine adriatiche venivano attraversate nel centro, là dove la Statale 16 si trasformava in lungomare. Un vero stillicidio.
     Fano, Senigallia, Falconara Marittima. E poi Ancona.
     Il motore della Cinquecento si era surriscaldato e dovemmo fermarci un po’ più del solito.
     Arrivammo a San Benedetto del Tronto che faceva ormai notte. Altro che raggiungere la meta in serata! Passammo la notte sul ciglio della strada, fra i pini marittimi, mentre cantavano i grilli e un venticello portava aria salmastra. Per un po’ ci assopimmo in macchina. Poi papà e mamma stesero una coperta nell’erba secca. Così ci allargammo, facendo le cinque di una fresca mattina d’estate.
     Quando ci rimettemmo in macchina, papà disse: - Fra sessanta chilometri siamo a Pescara, e quando saremo a Pescara è come se fossimo a casa. Là, comincerò a sentire l’aria del mio paese.
     Pescara la superammo solo dopo due ore. E poi, giù, lungo il rimanente della costa adriatica, verso Termoli.

     Era passato mezzogiorno, quando lasciammo la costa per inoltrarci nel Tavoliere delle Puglie.
     La fatica stava diventando insostenibile. La Cinquecento emetteva una specie di ronzio soffiante, segno che il motore era messo a dura prova.
     Ci trovavamo in una specie di deserto, tra campi di grano a perdita d’occhio da poco mietuti.
     Lungo un rettilineo in pendenza, dalle parti di Serra Capriola, mia madre osservò: - Antonio, perché vai così adagio? Non passa nessuno… e siamo in discesa.
     - Ma che dici? – fece mio padre. – Non vedi che siamo in salita?
     I miei tre fratelli si erano addormentati. Io provavo la stessa sensazione di mio padre, ma ebbi il dubbio che fosse quella giusta.
     La scatola su quattro ruote era diventata un forno, sotto il sole spietato del Tavoliere. E fu con vero coraggio, con la forza che dovevano avere i grandi pionieri, che riuscimmo ad attraversarlo.
     Quando fummo sui primi contrafforti dell’Appennino, tra i monti della Daunia e quelli dell’Irpinia, papà accostò la macchina per la solita rinfrescata al motore. Ci fece scendere e ordinò:  - Respirate tutti a pieni polmoni. Ecco l’aria del mio paese!
     E quando poi arrivammo, la nostra fu un’entrata degna dell’impresa che avevamo compiuto. Mentre affrontavamo le ultime curve che ci portavano in paese, la gente ci guardava con vero stupore, si chiedeva da dove venisse quella macchinetta verde prato, stipata di gente e schiacciata da una pila di valige. La vedevano passare, e provavano a leggere la targa: donne sedute a ricamare sull’uscio di casa, il barbiere che aspettava il primo cliente del tardo pomeriggio, il sacrista della Chiesa di Santa Maria che apriva il portale per la messa vespertina. E giunti nel piazzale antistante l’Istituto Magistrale, prima di imboccare il vicolo dove sorgeva la casa dei miei nonni, dovemmo sostare a lungo dietro una fila di contadini con muli e asini che tornavano dalla campagna. E quella fu l’ultima coda, fu l’ultimo rallentamento di quel viaggio durato tre giorni.
     La mamma, stravolta per la stanchezza, disse: - Ecco, bambini, siamo a Lacedonia. Mille chilometri da casa nostra. Qui ci staremo per quasi due mesi.
    Ma il mio pensiero andava al prossimo viaggio. E pensai che due mesi sarebbe stato un lasso di tempo troppo breve, tra l’andata e il ritorno.