Con questo racconto, Giuseppe Novellino ha voluto omaggiare una celebre collana editoriale che dal 1954 si occupa di fantascienza. I libri non sono sempre dei "mattoni" illeggibili come le dispense di Storia Romana, alle volte sono gustosi come gelati e sbrindellati come chi li legge.
Enzo buttò il libretto sul sedile vuoto,
accanto a me. Era seduto di fronte. Ci eravamo entrambi accomodati sul lato del
finestrino.
– L’hai già letto? – Mi sembrava
incredibile.
Il mio amico fece un cenno con il capo e
ammiccò.
Il treno procedeva a settanta chilometri
orari, con il suo monotono sferragliare, sulle curve del lago di Como. Presto
avrebbe raggiunto la stazione di Colico. Enzo sarebbe sceso ed io avrei continuato
il mio viaggio fino a Sondrio.
– Ti è piaciuto?
– Forte.
Lo guardai di sottecchi. Lui si stava
accendendo una sigaretta: la quinta o la sesta da quando avevamo lasciato la
Stazione Centrale di Milano. Emise una lunga scia di fumo e lanciò un’occhiata
fuori dal finestrino.
– Di cosa parla? – domandai, per metterlo
alla prova.
– Non l’hai ancora letto?
– No – mentii. Invece lo avevo letto tre
anni prima. Mi aveva molto impressionato, mi era rimasto scolpito nella memoria.
Lui corrugò la fronte, aspirò ancora dalla
sigaretta e disse laconico: – Di strane creature che vengono dall’ignoto.
Le sue parole non provavano nulla. Tutti
l’avrebbero colto quel contenuto, anche solo dando un’occhiata al disegno di
copertina, dove si vedeva una giovane donna seminuda (probabilmente mentre si
stava asciugando in bagno), aggredita da una informe sostanza verdastra
vomitata dallo scarico. Rimaneva il mistero di come fosse riuscito, Enzo, a
leggerlo in poco più di un’ora. Centocinquanta pagine fitte fitte, con le
parole disposte su duplice colonna, tipico di Urania. Quello era il n°436, e
non faceva eccezione.
Enzo l’aveva materializzato dalla sua
borsa, mentre attendavamo la partenza del convoglio e ci scambiavamo alcune parole
di saluto. Evidentemente glielo aveva prestato, o venduto, qualcuno. Era in uno
stato a dir poco pietoso, forse perché era passato tra le mani di tanti
lettori.
Arrivavamo entrambi dalla Cattolica, ma ci
eravamo incontrati solo in stazione. Lui tornava da una semplice puntatina in
segreteria; io ero reduce dall’esame di storia romana. Mi era andato bene, anzi
benissimo, un trenta senza lode. Ma la mia soddisfazione non toccava le stelle.
La professoressa, infatti, era un tipo a mio avviso un po’ sbarellato: metteva
bei voti ai maschietti, anche se non erano molto preparati, e segava
sistematicamente le femmine, se non sapevano tutto alla perfezione. E poi era
un esame facile, principalmente basato sui retroscena della scostumata famiglia
Giulio-Claudia. Ben altra cosa era l’esame che mi aspettava da lì a quindici
giorni: Pedagogia 2. Un vero scoglio. Per questo, durante quel viaggio di
rientro a casa, mi ero messo a leggere una delle due dispense su cui ero
indietro: un mattone di trecentoventi pagine.
Il mio amico Enzo, invece, si era immerso
nella lettura di un vecchio numero di Urania. Per tutta quella parte del
viaggio non aveva alzato gli occhi dal libretto. Girava le pagine con
sorprendente rapidità, ogni tanto estraeva una sigaretta e l’accendeva senza
interrompere la lettura. Niente lo aveva distratto, né il dondolio del
convoglio, né il vociare degli altri passeggeri, che nel tratto tra Milano e
Lecco erano assai numerosi.
Io non avevo osato interromperlo. Avevo
cercato continuamente di concentrarmi sulla dispensa del professor Agazzi, ma
senza il minimo successo. E non sapevo se a distrarmi era la gente che
affollava la carrozza, oppure il mio amico Enzo, che mi sembrava quasi irreale
nella sua rapidità di lettura.
Adesso mancavano non più di cinque minuti
a Colico. Il viaggio di Enzo stava per finire. Ed io volevo sapere quanto fosse
riuscito a capire con una lettura a dir poco supersonica. Non potevo fargli la
domanda, così, direttamente, come l’avrebbe fatta un insegnante all’alunno
negligente. Quindi, come per sondare il terreno, dissi:
– Deve essere una storia agghiacciante, a
giudicare dalla copertina.
Lui guardò l’orologio. Poi afferrò il
libretto e fece per rimetterlo nella borsa. – Vuoi leggerlo?
Ebbi
l’impressione che non avesse colto le mie ultime parole.
– Ne vale la pena? – domandai a mia volta.
– Direi di sì. – Rimase con l’opuscoletto
nella mano. Se vuoi te lo regalo. – Me lo porse. – Sai, io non faccio
collezione. Di Urania ne leggo tanti, ma poi li dimentico. Mi piacciono un
casino… Per me è come mangiare un gelato. Una volta consumato, non c’è più,
anche se ti lascia per un momento un buon sapore in bocca.
– Allora l’hai già dimenticato.
– Ma cosa dici? No, che non l’ho
dimenticato. Ma domani o dopodomani non so cosa mi ricorderò. Lo vuoi o non lo
vuoi?
Dovevo essere coerente con la mia
precedente dichiarazione di non averlo mai letto, e poi non potevo smentire la
mia grande passione per la fantascienza; quindi dissi:
– Grazie, lo leggerò. – E lo afferrai.
Lui guardò fuori dal finestrino e si
preparò a lasciare il suo posto. Il treno stava rallentando.
– Allora, di che cosa tratta? – feci,
prima che mi sfuggisse come un’anguilla.
Si alzò in piedi. – In buona sintesi.
Siamo in un villaggio inglese. Una strana barriera si forma intorno a esso. La
gente che si avvicina comincia a morire. E poi, all’interno del paese, nascono
trenta bambini e trenta bambine. Apparentemente crescono come tutti gli esseri
umani… Ma poi ci si accorge che in loro c’è qualcosa di strano. – Il treno
intanto si era fermato. – Oh, scusami, devo andare. Ma leggi, leggi. È una
bomba. Ciao.
Rimasi di stucco e non riuscii nemmeno a
salutarlo. Che avesse capito proprio nulla non me lo aspettavo. Mi aveva
buttato lì la trama di un altro libro di fantascienza. Da buon esperto del
genere, l’avevo riconosciuto: si trattava del mitico “I figli dell’invasione”
di John Windham. Mi sentivo preso in giro. Avevo pensato che mi spiattellasse
qualcosa d’incompleto e incoerente su “Dalle fogne di Chicago”, invece mi aveva
sintetizzato tutt’altra storia. Che avesse capito la mia curiosità nei
confronti del suo veloce modo di leggere e mi avesse voluto menare per il naso?
Guardai il libretto che tenevo fra le
mani. La copertina era proprio logora, faceva quasi schifo, ma era quella del
n° 436. Aprii il volumetto alla prima pagina… e rimasi di stucco.
Campeggiava il titolo “I figli
dell’invasione”.
Impiegai un po’ ad accorgermi che quella
non era la copertina del libro in questione. Era stata applicata con un
groviglio di carta gommata. Probabilmente, passando di mano in mano, quel
vecchio numero di Urania aveva perso la copertina originaria e qualcuno, forse
lo stesso Enzo, l’aveva sostituita con quell’altra, per tenere insieme le
pagine.
Allora non riuscii a trattenermi e mi misi
a ridere. Non solo il mistero circa il modo di leggere del mio amico rimaneva,
ma se ne aggiungeva un altro.
– Che fine avranno fatto – sussurrai – le
pagine del n° 436 di Urania?