Il 20 novembre
del 1980, a
trentacinque anni esatti dal giorno in cui la banda dei siciliani assassinò
senza pietà dieci persone e ne occultò i cadaveri in una cisterna della Cascina
Simonetto a Villarbasse, il Campo 1, del cimitero monumentale di Torino, è
stato smantellato. Ora vi chiederete cosa c'entra lo smantellamento di una porzione di
cimitero, con uno dei più sanguinosi fatti di cronaca accaduti subito dopo la
guerra? C’entra eccome! perché nel Campo 1 furono sepolti i resti di tre, dei
quattro assassini, che compirono quei delitti.
Di
Giovanni Puleo, Francesco La Barbera e Giovanni D’Ignoti, al novembre del 1980,
non era rimasto che qualche brandello di stoffa attaccato a quattro miserabili
ossa. I tre furono fucilati il 4 marzo del 1947, furono anche gli ultimi
civili, nella storia d’Italia, che pagarono con la vita i crimini che avevano
commesso.
Non ho potuto vedere quei resti quando furono
esumati, ero ancora un bambino, e la storia che ora mi accingo a raccontare ha
dei risvolti inediti che non sono mai stati rivelati.
Non ho prove documentarie che stabiliscano la
veridicità dei fatti, ma mi sono sempre fidato della persona che mi ha messo a
parte di questo segreto. Una persona fidata, un giornalista che non ha fatto
carriera e che se avesse avuto una qualche fama, quella fama, quella notorietà,
l'avrebbe senza dubbio dovuta ricondurre a questa storia.
I.B.
“I
necrofori del cimitero armeggiavano vicino ai resti dei tre assassini, quei
resti venivano accatastati insieme a quelli di altri poveretti. Erano tante le
ossa. Luccicavano sotto la pioggia pungente di quel mattino di novembre che
anticipava il morso dell'inverno. Tutte le ossa furono portate in un ossario
comune dove col tempo hanno perso quel
poco di identità che le singole croci, con sopra scritto ognuna un nome, avevano
dato loro dal momento della sepoltura. Nessuno fece domanda in municipio per avere
indietro i resti dei tre assassini….”
Nota dell'autore: questo racconto è liberamente ispirato ad una storia vera. La documentazione grazie alla quale è stato possibile costruire la trama della novella è stata raccolta dal libro di Gian Franco Vené "Pena di Morte - Villarbasse gli ultimi giustiziati in Italia" edizione Bompiani.
Massimo
Galimberti
La pioggia era appena un vapore freddo che s’infilava sotto il giaccone per poi entrare nei muscoli e nel midollo. Il cielo era coperto di nuvole. La recinzione di plastica arancione, tutt’intorno il perimetro del Campo 1, brillava ogni volta che veniva colpita dalla luce dei fari delle escavatrici. L’interno del cantiere era un campo di battaglia bombardato, con buche profonde di terra scura, e qua e là blocchi di cemento divelto. Per ogni squadra di becchini, ogni volta che una fossa veniva aperta, ce n'era uno che si calava dentro, faceva passare le funi sotto il legno marcio della bare, poi risaliva in superficie e in quattro tiravano su il feretro. Se andava bene, il fondo della cassa resisteva, se andava male, cedeva. Allora bisognava tirare su quello che si riusciva e poi, in un secondo tempo, riportare fuori dalla fossa tutto il resto a forza di vanga. Forse il comune non era proprio al corrente delle procedure di smantellamento e sanificazione dei sarcofagi, o forse chiudeva un occhio perché il metodo adottato era il sistema più economico.
La pioggia era appena un vapore freddo che s’infilava sotto il giaccone per poi entrare nei muscoli e nel midollo. Il cielo era coperto di nuvole. La recinzione di plastica arancione, tutt’intorno il perimetro del Campo 1, brillava ogni volta che veniva colpita dalla luce dei fari delle escavatrici. L’interno del cantiere era un campo di battaglia bombardato, con buche profonde di terra scura, e qua e là blocchi di cemento divelto. Per ogni squadra di becchini, ogni volta che una fossa veniva aperta, ce n'era uno che si calava dentro, faceva passare le funi sotto il legno marcio della bare, poi risaliva in superficie e in quattro tiravano su il feretro. Se andava bene, il fondo della cassa resisteva, se andava male, cedeva. Allora bisognava tirare su quello che si riusciva e poi, in un secondo tempo, riportare fuori dalla fossa tutto il resto a forza di vanga. Forse il comune non era proprio al corrente delle procedure di smantellamento e sanificazione dei sarcofagi, o forse chiudeva un occhio perché il metodo adottato era il sistema più economico.
Un vecchio se
ne stava impalato sotto la pioggia ai bordi dell’area recintata, e da lì
osservava con occhio acquoso le diverse fasi dello smantellamento. Era un
vecchio non tanto vecchio, poteva avere una sessantina d’anni, ma il peso di quei
sessant’anni era un fardello che aveva lasciato un segno nel fisico di
quell’uomo. Benché di media statura, sembrava più basso per via delle spalle incurvate.
I suoi occhi erano come velati da una sorta di nebbia. Il volto scavato da
profonde rughe. Una nazionale, senza filtro, gli pendeva dalle labbra livide.
Teneva le mani sprofondate in ampie tasche del cappotto. Il bavero era alzato e
gli copriva il collo dalla pioggia. Sulla testa bianca indossava uno sdrucito
cappello di panno. Non fosse stato per quel berretto, l’uomo sarebbe somigliato
vagamente ad una tartaruga gigante che si fosse improvvisamente eretta sulle
pinne di dietro.
Il
giornalista arrivò all’appuntamento con un quarto d’ora di ritardo. Prima di
uscire era seccato di dover lasciare la redazione e il suo tepore per un
incontro che sospettava essere una perdita di tempo, tuttavia lo scrupolo del
cronista in cerca del pezzo da sbattere in prima pagina lo aveva spronato a non
poltrire. Era sceso in strada senza troppa convinzione e si era diretto alla
fermata del tram. Potevano essere le dieci e venti del mattino, l’appuntamento
al cimitero monumentale era per le dieci e trenta. Il giornalista vi arrivò che
erano le dieci e quarantacinque.
Il cimitero era il cimitero di una grande
città, e il giornalista dovette chiedere al custode quale direzione prendere. Armato di taccuino
trovò piacevole passeggiare per i tracciati del camposanto. Procedeva in direzione
del Campo 1 senza fretta. Passava accanto ai marmi ottocenteschi delle lapidi
con la curiosità di un turista in un museo. Poco prima di scorgere la
recinzione arancione del cantiere, il cronista de “La Stampa ”, udì il rumore
delle ruspe. “Ci siamo – pensò – è qui che ho capito di dover venire”. Non sapeva
con chi si sarebbe incontrato, l’appuntamento l’aveva preso per telefono la
sera prima:
«Pronto? Si
me lo passi pure - disse il giornalista all'apparecchio - Con chi parlo?»
«Ho una storia incredibile da raccontare»
gli sussurrò una strana voce all'altro capo della linea.
«Di cosa si tratta?»
«Solo di una vecchia storia»
«Guardi, ha capito male, se non è più
preciso è inutile continuare questa conversazione»
«Villarbasse…dico solo questo. La strage
non l'hanno raccontata tutta...non il finale completo. Sarò domani al cimitero comunale
ad assistere allo smantellamento del Campo 1. Domattina aspetterò lì fino alle
dieci e mezza».
Massimo
Galimberti, da poco assunto alla “Stampa”, aveva 35 anni, era celibe e senza
più quasi un parente. Si era trasferito da Milano dove era corrispondente del
“Giorno” per la zona della Brianza monzese, da una decina di mesi respirava il
clima umido di Torino. Galimberti era tutto casa, lavoro e sigarette. Dopo
avere preso la chiamata rovistò per un momento tra le carte della sua scrivania
fino ad aprirsi un varco per recuperare un giornale. Dello smantellamento del
Campo 1 aveva scritto proprio un paio di giorni prima. E ora quella telefonata.
Aprì il quotidiano e corse alle pagine locali.
Si smantella il Campo
1 del cimitero monumentale
MEZZO MILIARDO DI LIRE
PER LA RIQUALIFICAZIONE DELL’AREA
L’ampliamento prevede la realizzazione di cappelle
gentilizie di grande importanza artistica
Nell'articolo
che aveva scritto c'era tutta la descrizione del progetto e dei costi di
realizzazione dell'opera, ma poi chiudeva con un po’ di colore fuori contesto,
inaspettato:
A
quarant’anni dalla strage nessuno reclama i resti degli assassini di
Villarbasse.
Un collega aveva curiosato sulla macchina da scrivere di Galimberti
mentre stava scrivendo l’articolo del cimitero e gli aveva accennato della
storia di Villarbasse. Il giornalista aveva così voluto aggiungere quella breve
nota di colore che sconfinava con la cronaca nera.
«Alla fine qualcuno c’è
venuto davvero. Cominciavo a credere che non si
sarebbe presentato nessuno» disse il vecchio non appena il giornalista gli fu accanto.
sarebbe presentato nessuno» disse il vecchio non appena il giornalista gli fu accanto.
«Si, qualcuno si è assunto
l´incomodo. Sono Massimo Galimberti...»
«Non mi interessa sapere chi
è Lei - tagliò corto il vecchio – mi interessa solo che abbia voglia di ascoltare
ed eventualmente scrivere una storia che non è mai stata raccontata fino in
fondo».
Il cronista si era fatta
un’idea sbagliata di quell’incontro. Aveva trovato il vecchio vicino alla
recinzione e aveva pensato di avere a che fare con un coglione. Invece, l’uomo
che si trovava davanti, aveva messo subito in chiaro una cosa, spettava a lui
la conduzione di tutto quello che sarebbe seguito.
«Il cimitero è la nostra
ultima tana. Quando si finisce sepolti sotto un paio di metri di terra più
nessuno ti viene a cercare, perché se qualcuno ti ha cercato in vita, una volta
che sei morto, sa dove ti trovi e non gli interessi più» disse il vecchio.
La pioggia aveva smesso di
essere solo un vapore freddo e si era fatta pioggia vera. Le gocce cadevano
ritmiche sul selciato e sulle tombe levigate. Insieme, il giornalista e il
vecchio, si diressero verso l’ala più antica del monumentale. Il cronista s’accostò
a quell’uomo misterioso che ancora non gli aveva detto nulla di così importante
da giustificare la sua presenza lì, e gli offrì un riparo con l’ombrello che
s’era portato dietro. Il vecchio non gli mostrò alcuna gratitudine e continuò a
camminare curvo, ma con passo deciso, senza tremori e senza fretta. L’acqua,
che cominciava a scrosciare, non lo disturbava minimamente, ci fosse stato il
sole sarebbe stata la stessa cosa.
«Conoscevo bene Puleo, La Barbera e D’Ignoti»
continuò lo sconosciuto senza scomporsi.
«Non crederà che mi beva la storia che mi ha raccontato?» disse il
cronista guardando il vecchio dritto negli occhi, ma la sua era una domanda
retorica, che significava che ci credeva, ma che non riusciva proprio a farsene
una ragione.
Il vecchio non gli rispose
neppure. Sostenne lo sguardo del giornalista senza scomporsi. L’ambiente in cui
i due si erano andati a rifugiare era quello di una cantina trasformata in una trattoria.
Tavoli grezzi di legno e sassi a vista, un bancone all’ingresso con tre
rubinetti di spinatrice, qualche botte qua e là a fare da scenografia. Solo
un’ombra di luce a illuminare lo stanzone umido e un po’ unto. Pochi i
clienti.
«Ecco a voi gli intingoli e
la bagnacauda» disse il proprietario del locale mentre li serviva.
«Anche quella sera cenammo
con questo sugo» disse il vecchio.
«Prima di salire alla Cascina
dove cenaste?» domandò Galimeberti.
«In un’osteria di via
Cibrano».
«Questa è via Cibrano. E’
questa l’osteria? qui intorno non ce ne sono altre».
«No, non è questa» rispose il
vecchio prima di sparire nel piatto che aveva davanti.
Finito che ebbero di mangiare,
quando sul tavolo, fra le briciole di pane e qualche macchia d’olio larga sulla
tovaglia a quadri, erano comparsi i caffè e due bicchierini scuri d’amaro, il giornalista si rivolse di nuovo
al vecchio:
«E così tu sei Pietro Lala,
morto due volte, ma ancora tra noi»
«Si sono io!» esclamò il
vecchio con una smorfia di soddisfazione smorzata da un dolore sopito, ma
presente. Era la prima volta, da quando si era incontrato col giornalista, che
mostrava un qualche segno d’umanità.
«La prima volta trovarono il
mio corpo in mezzo alla campagna, ovvio che non ero io. Quel cadavere però
poteva anche appartenermi, per statura, età... I lineamenti non si
distinguevano perché a quel poveraccio gli avevano sparato un bel colpo di
lupara in piena faccia a non più due metri di distanza. Chissà che aveva
combinato per meritarsi quella fine. La seconda volta, quando scoprirono che
ero ancora in vita con il nome di Francesco Saporiti, mi uccisero in un
regolamento di conti. Ma anche quella volta non ero io, per fortuna» Il vecchio rimase pensieroso e, nei suoi
occhi, il giornalista credette di scorgere i fantasmi d’un passato turbolento. In quegli occhi, finestre
aperte su un’anima perduta, c’era la
campagna siciliana arsa dal sole. C’erano gli olivi, nodosi, contorti, sparuti,
che affondavano le radici nella terra
brulla. E c’era il paese di Mezzojuso, lontano con le sue basse dimore, un
paese addormentato nel caldo torrido dell’estate. E forse il giornalista aveva
visto tutto questo e aveva visto giusto.
«Siccome la sorte che mi sarebbe stata riservata non era poi così
diversa da quella di quel primo morto ammazzato, e mia madre lo sapeva, lei stessa si affrettò a
riconoscere in quel giovane il suo proprio figlio. Naturalmente ne approfittai,
la guerra era ormai quasi finita, cambiai nome e mi diressi al Nord con una
colonna d’approvvigionamento dell’esercito Alleato. Lavoravo per gli inglesi e
gli americani, godevo della loro protezione. Fu così che giunsi a Torino. Non
subito però, attesi la fine di tutto»
«La fine della guerra. Mio padre è stato nei Gap a Milano» disse
Galimberti
«Un comunista!» esclamò il vecchio.
«Non era un comunista, era antifascista, credeva nella democrazia,
credeva che via i fascisti l’Italia sarebbe rinata sotto la Repubblica , e che ogni cosa
si sarebbe aggiustata» S’infiammò il giornalista. Il vecchio fece un sorriso a
metà tra l’ironico e il compassionevole.
«E l’Italia, oggi, è così come la voleva tuo padre?»
«No. Mio padre era un ingenuo, è morto con le sue convinzioni»
«Questo Paese non è mai stato e non sarà mai come lo hanno sognato gli
onesti, ma è come il Potere vuole che sia»
Seguì un attimo di silenzio. I due, il giornalista e il vecchio,
stavano quasi entrando in sintonia. Una strana empatia si era creata e li aveva
avvicinati. Il giornalista sapeva che aveva a che fare con un assassino che gli
aveva appena rivelato i feroci retroscena di una strage, ma, nonostante la
soggezione iniziale, sentiva di non temerlo. Sentiva che quell’uomo stava
compiendo un passo che non avrebbe mai pensato di dover fare. Sarebbe stata
ridicola qualsiasi esitazione. Il vecchio gli si stava presentando così
com’era, spogliato dei suoi crimini, non poteva, lui, nascondersi.
«Comunque fui io ad organizzare il colpo alla Cascina Simonetto dopo
averci lavorato e dopo aver finto di voler tornare in Sicilia» riprese il
vecchio.
«Dieci persone… avete massacrato a bastonate dieci persone e le avete
gettate in fondo a un pozzo. La sua telefonata mi ha incuriosito e mi sono
documentato quel tanto che bastava»
«Abbiamo risparmiato il bambino»
«Siete stati molto generosi» disse con sarcasmo il giornalista.
«Li abbiamo uccisi a bastonate
perché la Beretta
7,65 di La Barbera
aveva soltanto due proiettili e li avremmo usati solo nel caso in cui le cose
si fossero messe male. C'era quel Renato Morra, il genero del fittavolo, che
poteva darci noia. E c’ha provato, ha sfregiato sul collo proprio La Barbera , ha tentato di
scappare, si è difeso come un leone ferito. Era stato con i partigiani anche
lui. Sua moglie era in ospedale per partorire. Non aveva proprio voglia di
morire Renato, ma noi eravamo in quattro. Scampato alla guerra era arrivata la
sua ora. Ogni uomo ha un’ultima ora da vivere, prima o poi. Alcuni hanno la
fortuna di passare quell’ora, che è il confine ultimo tra l’essere e l’essere
stato, con chiara consapevolezza. C’è chi lotta fino alla fine e chi no» disse
il vecchio guardando negli occhi il giornalista, quasi volesse riconoscere,
dopo tanti anni, il valore di un uomo che non aveva avuto scampo, ma che non si
era dato per vinto.
«Che tipo era Morra?»
«Era un uomo intelligente e determinato, per questo che l’Anna se ne
innamorò subito. Anna, la figlia di Antonio Ferrero, era davvero una creatura
incantevole» sospirò il vecchio.
«Hai organizzato la strage solo per vendicarti di un amore non
corrisposto?» disse con la vice rotta dallo sconcerto Galimberti.
«Non ho mai ucciso nessuno per una donna. Non ne vale la pena. Ho
organizzato tutto perché dovevo recuperare una cosa, la rapina era solo un
diversivo».
Il vecchio si avvicinò allo schienale della sedia sulla quale aveva
fatto cadere, entrando nel locale, il suo cappotto. Scrutò in una tasca e ne
trasse un plico di documenti ingialliti. Il giornalista guardò il plico.
«Quelle persone furono tutte sacrificate non per poche migliaia di lire
e una forma di formaggio come scrissero, ma per qualcos'altro...» disse il
vecchio posando sul tavolo i documenti.
Galimberti diede un occhiata a quelle carte ingiallite. Era ammutolito
e non osava srotolare l'involucro che il vecchio gli aveva messo sotto il naso.
Aveva paura, ora, mentre si trovava a quel tavolo con quell'uomo enigmatico, di
scoprire davvero qualche terribile segreto.
«Fui incaricato dall'OSS, l'ufficio per la segretezza strategica
americana, di recuperare quel carteggio che, non so come, era finito nelle mani
dell'avvocato Gianoli. Il mio ruolo era di organizzare una finta rapina, far
fuori i testimoni e impossessarmi di questi documenti. Pensai che avremmo
dovuto al massimo assassinare il vecchio avvocato e la sua governante, nessun
altro. Il fittavolo non avrebbe dovuto accorgersi di nulla. Arruolai quei miei
paesani, che certo stinchi di santo non erano, ma che a parte il mercato nero,
non si erano mai distinti per altro. Le cose però non andarono così. Quei
ragazzi erano ignari della mia missione, credevano davvero che stessimo
commettendo una semplice rapina. Anzi mi sorprese con quale facilità li
convinsi della necessità di assassinare tutta quella gente...» il vecchio fece
una pausa. Era come raccolto nei suoi ricordi. Gli occhi sbarrati, non stava
guardando davvero ciò che aveva davanti, stava rivivendo una vita.
«Vuoi sapere cosa c'è dentro questi documenti?»
«Non lo so...non sono più sicuro di volerlo sapere» rispose il
giornalista.
«Sono gli accordi che lo Stato Maggiore Alleato stabiliva con Mussolini
se si fosse dimesso spontaneamente prima del 25 luglio del 1943. Erano accordi
molto vantaggiosi per il Duce. Non so cosa poi sia successo...la Storia ha le sue pieghe. In
queste pieghe è difficile leggere...ad ogni modo, quando mi unii alle colonne
militari alleate e con loro risalii la penisola, iniziai ad essere impiegato
per qualche piccola operazione...diciamo pure di spionaggio, nonostante fossi
sempre stato un povero delinquente comune. Certo ero amico personale del
bandito Giuliano, forse questa amicizia fece di me un tipo un po’ più scaltro
degli altri»
«Capisco! - esclamò Galimberti - Gli americani a guerra finita dovevano
assolutamente recuperare questi documenti perché se fossero stati trovati dai
partigiani, avrebbero potuto avere delle gravi conseguenze politiche. L'Italia,
allora, era ancora tutta da rimettere in piedi, anche da un punto di vista
istituzionale...il referendum tra Repubblica e Monarchia ci sarebbe stato nel
giugno del 1946...la
Democrazia Cristiana era soltanto uno dei due grandi partiti
di massa che si stava consolidando, l'altro era il Partito Comunista...Gli
americani non potevano correre il rischio di far scivolare un paese strategico
come il nostro nelle mani dei sostenitori del socialismo reale, nelle mani dei
sovietici, c’era stata Yalta...»
Il vecchio annuiva a tutte le considerazioni del giornalista. Lo
guardava e annuiva con un sorriso che si andava espandendo su quella faccia
incartapecorita.
«Quelle donne e quegli uomini alla Cascina Simonetto, quel giorno di
novembre del 1945, sono morti per una causa molto importante per il genere
umano, quella del Potere. Dopo tanti anni, ora che non mi resta più molto da
campare, mi piacerebbe continuare a credere che ciò che ti sto consegnando
possa cambiare davvero qualcosa…Ma so che non cambierà nulla» il vecchio alzò
le spalle in segno di sufficienza, si alzò, infilò il cappotto, si calò in
testa il cappello, lasciò sul tavolo il plico di documenti, salutò il giornalista,
e da allora non fu più possibile rintracciarlo.
La verità sulla Cascina Simonetto non venne mai pubblicata. Massimo
Galimberti, uscito dalla trattoria, venne aggredito da un paio di malviventi
che lo derubarono di ogni cosa dopo averlo massaggiato a dovere. Il plico con
il carteggio gli venne sottratto. L'editore e il direttore del giornale, in
mancanza di prove accertate, non vollero rischiare di uscire con una storia
come quella. Nessuno volle mai credere al giornalista, neppure la magistratura.
Buongiorno,
RispondiEliminaIo sono l’attuale proprietaria della cascina Simonetto di Villarbasse e rimango
sempre colpita da come questo luogo e la sua storia continuino a ispirare l’immaginario collettivo...
Il suo racconto mi è piaciuto.
Le segnalo, pregandola di indicare nel suo blog questa informazione, la nascita di un sito web dedicato alla Cascina Simonetto.
www.cascinasimonetto.com
Troverà molte informazioni legate alla storia di questo luogo e al suo genius loci, che magari potrebbero ispirarle
qualche nuova pagina! La cascina Simonetto ha intrapreso da qualche anno un percorso di purificazione della memoria,rinascita e ricerca di una nuova identità.
Un cordiale saluto.
Marinella Grosa
La ringrazio moltissimo per la segnalazione. Rimasi colpito diversi anni fa da un reportage di Giorgio Bocca aparso su La Republica, poi mi documentai un pochino. Non ho mai visitato i luoghi dove si svolsero i fatti. Sono però contento che anche un posto salito agli onori della cronaca possa continuare a esistere e a essere curato e valorizzato sotto altri aspetti.
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