domenica 19 giugno 2016

From Bergamo to Kiev

Esattamente il 14 giugno di tre anni fa, mia madre si spegnava nel suo letto tra le braccia di mio padre. La malattia l’aveva spolpata come un cane fa con un osso. Ha combattuto fin che ha potuto, poi si è arresa perché la lotta era impari.
Quando perdiamo una persona cara viene a mancare anche un punto di riferimento della nostra vita. È come levare i cardini a una porta, fino a quando non li sostituiremo la porta non girerà più. Tuttavia, nonostante il dolore, il senso di smarrimento, i grandi o piccoli sensi di colpa che ci pungono l’anima, la vita intorno a noi non si ferma un solo istante. E a non fermarsi non è solo la vita degli altri, ma anche la nostra. La mia famiglia e io abbiamo accettato la morte di mia madre perché, nonostante l’età – oggi sessantatré anni sono pochi per andarsene -, la sua perdita è rimasta nell'ordine naturale delle cose. Se perdessi uno dei miei figli probabilmente farei un ragionamento diverso. Eppure ho conosciuto persone straordinarie che, nonostante abbiano visto morire i propri bambini e qualcosa si sia irrimediabilmente rotto dentro di loro, non hanno perso la voglia di lottare e continuare a esistere.
Anche quando perdiamo un genitore in età adulta, qualcosa del nostro vivere va distrutto. Ciò che possiamo fare è raccogliere i cocci e provare a rimetterli insieme. Possiamo andare incontro al dolore, affrontarlo vis à vis, e lasciarcelo alle spalle anche se con noi ci porteremo per sempre un fardello carico d’incertezze.
È un po’ quello che ha fatto mio fratello. Cristian, a una manciata di giorni dalla morte di mia madre, si è ritrovato in un aeroporto pronto a prendere un volo che lo avrebbe portato in Ucraina per motivi di lavoro. Quel luogo ha risvegliato in lui un ricordo intenso che, nei giorni scorsi, a distanza di quasi tre anni, mi sono visto recapitare per e-mail. La sua mail era stata spedita dal suo indirizzo di posta elettronica, ma lui, come ormai accade spesso, era lontano migliaia di chilometri. Voleva condividere con me l’anniversario che ci aveva reso due orfani.
Dieci anni prima di quel viaggio verso Kiev, mio fratello aveva deciso di partire per Londra. Allora era giovane e scanzonato. Se ne partiva perché voleva scoprirlo il mondo: immergervisi dentro e affrontare il pericolo di affogare. Io mi ero appena sposato, mio padre macinava chilometri e chilometri per le strade d’Italia con il suo carico di mobili e stava quattro o cinque giorni a settimana lontano da casa. Mia madre era sola. Per lei la partenza di mio fratello fu una specie di dramma. Temeva non avrebbe più fatto ritorno, temeva si sarebbe perso, che lo avrebbero trattato come spesso noi italiani trattiamo in maniera troppo “confidenziale” gli stranieri con le tasche vuote.
Quando ho letto ciò che mio fratello mi ha inviato, gli ho subito chiesto di poterlo pubblicare su questo blog:
 “So che lo avevi scritto per te. La scrittura è catartica, ma proprio per questo motivo dovrebbe essere condivisa con chi non è in grado di esprimere così bene le proprie forti emozioni”.
Ecco perché ora vi propongo questo racconto autobiografico.


Ivan
19 giugno 2016


Bergamo. Ho voglia di piangere. Parto da qui e dalla voglia di piangere!
Arrivo all'aeroporto intorno alle 17 di un martedì pomeriggio per una breve trasferta di lavoro.
Ho voglia di piangere.
Entro in aeroporto e sebbene l’ora e il periodo dell’anno siano differenti, un ricordo mi colpisce improvviso come un diretto sul naso. Un ricordo forte; bello e doloroso. È vero l’aeroporto è un po’ cambiato al suo interno, o almeno così mi sembra, ma l’ingresso ai controlli di sicurezza sembra essere rimasto fermo nel tempo. Fermo a quasi dieci anni fa. Anche allora era un martedì, era mattina ed era gennaio: Il 13. Era il giorno in cui avevo deciso di partire per Londra. Anche allora quelle strisce gialle sul pavimento, che delineano le file per i controlli di sicurezza e che di conseguenza portano agli imbarchi, sembravano dover stabilire un punto di confine, una frontiera oltre la quale tutto sarebbe stato poi differente, tutto sarebbe cambiato. Una netta linea di demarcazione nella mia vita, piuttosto che un semplice segnale per ordinare file di persone impazienti. Io impaziente non lo sono adesso e non lo ero neanche allora.
Mio padre, mia madre e Sara avevano deciso di accompagnarmi all'aeroporto. Ricordo bene la mattina della mia partenza: malinconica, triste, tragicomica sotto certi aspetti. La sera prima avevo fatto una festa, una sorta di leaving party nonostante allora non sapevo nemmeno cosa significasse. Avevo bevuto troppo, forse per lasciarmi un po’ andare e forse per la paura di non dormire la notte. Dormii tranquillo invece e ricordo benissimo il volto di mia madre quando mi svegliò quella mattina. Aprì gli occhi e subito fui colto da una paura sconosciuta. Ebbi come l’impressione che la voglia e la smania che motivavano quella partenza al buio (non sapevo nemmeno dove avrei passato la prima notte) fosse soltanto un’immagine dalla quale ero affascinato, un’immagine necessaria a compiacermi. Forse ero più innamorato della figura del viaggiatore che del viaggio stesso. O almeno così ebbi l’impressione, e oggi, dopo molti viaggi di lavoro e di piacere, ancora non sono sicuro di poter escludere che, in qualche modo, quella partenza non fosse dettata da un incurabile idea di romanticismo bohemienne.  
Ricordo che mi alzai per fare colazione e vidi gli occhi di mia madre e di mio padre. I primi nascondevano delle lacrime troppo copiose per rimanere nascoste e che si arrendevano all'idea di quel viaggio al quale avevano cercato di opporsi. I secondi duri, sfiorati da una rigidezza che non mi pareva avessero mai avuto. Guardai nella mia tazza con tristezza.

“Chi mi preparerà la colazione d’ora in poi? Si è vero, sarò finalmente libero e indipendente, troverò un sacco di donne, farò la vita dell’artista, del vagabondo, dell’uomo di mondo! Sì ma questa ovattata comodità, questo calore, quando li ritroverò? Li ritroverò?”

Ricordo che arrivammo in aeroporto in silenzio nonostante avessi provato a rompere quell'atmosfera con qualche battuta senza però molto successo.
Ho voglia di piangere! Adesso, qui! Adesso mentre osservo quelle linee gialle sul pavimento vicino alle vetrate oltre le quali le transenne accompagnano le persone ai controlli e poi agli imbarchi: come una linea di confine da varcare. Adesso davanti a quelle linee e quelle vetrate ho voglia di piangere.
Vedo ancora le lacrime di mai madre e quelle di Sara, gli occhi lucidi ma sobri di mio padre. Sono fermo davanti a quell'immagine, oggi come dieci anni fa. Vedo mia madre lì ad un passo da me, la voglio abbracciare, lei piange e io non la trovo più. Eppure era lì un attimo fa. Dieci anni fa. Ho voglia di piangere. Ho voglia di rotolarmi a terra, di picchiare i piedi. Ho voglia di spogliarmi di questi vestiti da venditore ambulante, di lanciare questa borsa lontano e spaccarla contro il muro, di correre ancora ad abbracciare mia madre che vedo lì, ancora lì, con le lacrime agli occhi. Sono fermo davanti a quella linea e più passano i minuti e più sembra assumere le incredibili sembianze di una vallata mostruosa, che segna, che delimita, che divide. Allora, sebbene non fossi impaziente, non vedevo l’ora di allontanarmi da quella malinconica immagine dei miei che mi guardavano partire. Valicai quel confine col cuore gonfio, triste ed eccitato per quello che mi aspettava, per quello che avrei trovato, per quella libertà tanto agognata, per l’ignoto entro il quale mi sarei tuffato. Oggi sono qui, è martedì come allora anche se è luglio ed è sera e dieci anni fa era una mattina di gennaio. Sono qui di fronte a questa linea gialla tirata sul pavimento grigio. Vedo ancora una volta i miei che mi salutano e mia madre che è lì a un passo e voglio abbracciarla.

Ho viaggiato abbastanza da quel martedì di gennaio, giorno in un certo senso della mia iniziazione. Sono stato in molti posti: forse per merito, forse per caso, certe volte per fortuna. Oggi sarebbe un viaggio come un altro, una breve trasferta di lavoro.  Questa è solo la seconda volta che parto dall'aeroporto di Orio da quel 13 gennaio. La volta precedente, circa due anni fa, e sempre per lavoro, andavo nella città in cui avevo vissuto e che avevo abbandonato: Barcellona. Quelle linee sul pavimento, quella volta, sembravano solamente rievocare la voglia di libertà che mi spingeva e che avevo cercato partendo una mattina d’inverno; la libertà che avevo conquistato e che già durante la trasferta catalana avevo smarrito, barattato. In partenza per Barcellona ricordai solo il moto che mi spingeva, i miei sullo sfondo mi facevano sorridere. Non provai l’invidia di me stesso ritornando al gennaio di parecchi anni prima in cui provavo a lanciarmi nel mondo da sprovveduto e senza frecce all'arco. Oggi provo nuovamente invidia per quel ragazzo che aveva voglia di tuffarsi nel mondo e che non sapeva come, né da dove gli arrivasse la spinta che era diventata una necessità. Provo invidia non per l’utopica libertà che ero convito di possedere, per quell'assoluto che avrei voluto toccare, ma perché quel 13 gennaio prima di valicare la linea gialla feci un passo ed abbracciai mia madre. Oggi, che non c’è più da due settimane, ancora la vedo oltre la linea, ma non ho più la possibilità di fare quel passo. Così non mi resta che valicare nuovamente la linea portando con me i miei vestiti, la mia borsa e quella straordinaria, crescente e opprimente voglia di piangere.


Cristian Bavuso
13 luglio 2013



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