Ricordo ancora che faceva freddo quel dicembre. Ricordo la confusione, le raffiche di mitra. Rivedo il corpo di Gino, steso sulla piazza del paese con le braccia larghe come un Cristo sulla croce. Ricordo gli ordini dei soldati tedeschi: ordini perentori, violenti, disumani. Ricordo mio padre rassegnato e ricordo l’ultimo sguardo di mia madre.
Maria
non voleva che guardassi. Non voleva lasciarmi vicino alla grata dello
scantinato dove ci eravamo nascosti. Continuava a tirami indietro facendomi
ogni volta perdere l’equilibrio sui sacchi di farina sottratti agli ammassi e
accatastati sotto la piccola feritoia da cui assistevo inerme.
I
miei occhi di bambino non capivano bene cosa stesse accadendo, ma nel fondo
dell’anima, era tutto chiaro. Non avrei più rivisto la mia famiglia viva. Solo
nei miei sogni si sarebbe ricomposta, come in un puzzle le cui tessere sbiadiscono con l’approssimarsi del mattino.
Ricordo
che non riuscivo a staccare le mani dalle sbarre di quella finestra che mi
tenevano lontano dai miei genitori, al sicuro e solo. Maria, La figlia del
commissario prefettizio, piangeva e mi pregava di staccarmi da lì, ma io non ci
riuscivo.
All’epoca
avevo nove anni e non immaginavo che la mia vita sarebbe cambiata con quel viaggio
verso Como. Dopo il 30 novembre del 1943, tutti gli ebrei, già discriminati
dalle leggi fasciste, furono considerati nemici della patria. Ogni bene fu loro
sequestrato e anche in Italia si aprirono i lugubri cancelli dei campi di
concentramento o di deportazione per la Germania. Con la mia
famiglia abitavo a Milano e come tanti nostri amici fummo improvvisamente a
rischio. Da diverse settimane non andavo più a scuola e lo stesso era per mio
fratello Gino, studente ginnasiale. Le scuole pubbliche ci erano state vietate,
e la sede dell’Istituto ebraico che frequentavamo era stata chiusa. Mio padre
intanto si stava adoperando in segreto per organizzare la nostra fuga in
Svizzera. Doveva essere un serto anche per me, anche se non lo era poiché avevo
ascoltato di nascosto una conversazione dei miei genitori che spiegavano a Gino
come stavano le cose e gli raccomandavano di non raccontarmi nulla per non
spaventarmi. Così, quando mia madre nel pieno della notte mi svegliò, non
rimasi sorpreso.
«Dove
andiamo mamma?»
«Andiamo
in posto bellissimo, in montagna. Ti piace la montagna?»
«Si
mi piace, ma perché non mi avete detto niente?»
Mia
madre sorrise, ma si capiva benissimo che il suo era un sorriso di circostanza;
freddo e nervoso disegnato male viso pallido e contratto.
«Tanto
lo so dove andiamo - le dissi - Andiamo in Svizzera!»
In
sala, mio fratello e mio padre discutevano sottovoce. Appena mi videro smisero
di confabulare. Gino prese una delle valigie pronte sull’uscio del nostro
appartamento e mi disse di seguirlo giù dalla tromba delle scale, mi indicò un
fagotto nell’angolo della porta d’ingresso, lo presi e gli andai dietro.
«Fa
attenzione e non fare rumore»
Gli
obbedii. Scendemmo le scale. Era come partire per la villeggiatura d’estate,
però non era esattamente la stessa cosa. L’atmosfera era diversa. Quella notte,
tutto era immerso in un’ombra gelida: i pianerottoli, il vano dell’ascensore,
la portineria, tutto aveva assunto un aspetto triste. Gino era inquieto e ad
ogni minimo rumore delle mie suole si voltava verso di me con una faccia che
sembrava dire: “Se ci provi un’altra volta ti fulmino”.
Fuori
dal palazzo, dall’altra parte della strada, era parcheggiata una Balilla.
Appena fummo usciti dal portone, un uomo, che era seduto sul sedile anteriore
dell’auto, scese trafelato e si diresse verso di noi. Non lo avevo mai visto
prima. Ci salutò con un cenno della testa e ci aiutò a portare le valigie. Dopo
qualche minuto scesero anche papà e mamma. Si accomodarono entrambi sul sedile
posteriore, io ero seduto in mezzo a loro. Gino, invece, si sedette davanti.
L’auto partì scivolando sul selciato di pietra della via e si diresse verso il
lago di Como.
«E’
tutto a posto?» chiese mio padre.
«Tutto
a posto dottore, non si preoccupi. Vi porto da gente fidata. Hanno già fatto passare
il confine ad altre persone. Vedrà che tutto andrà bene».
Per
tutta la durata del viaggio sentii il braccio teso di mio padre cingermi le
spalle e la mia mano che si stringeva in quella sottile di mia madre. Il nostro
autista si chiamava Nedo e seppi poi che era un membro della Delasem di Milano,
la Delegazione
d’assistenza degli Emigrati Ebrei. Sapeva il fatto suo perché più d’una volta,
durante il viaggio, mio padre gli domandò ragione della strada che
continuamente cambiavamo.
«E’
più lunga, ma più sicura dottore. Si fidi. Più lunga, ma sicura».
Mi
appisolai tranquillo fra le braccia della mamma. Quando mi svegliai stavamo
salendo lentamente la collina. A destra e a sinistra udivo solo lo stormire
degli alberi spogli, e davanti potevo vedere il cono di luce dei fari che
illuminava la strada per Brunate. Arrivammo in paese che quasi albeggiava. Nedo
fermò la macchina davanti alla trattoria Volta.
«Torno
immediatamente» disse e sparì, lasciandoci in machina.
Rimanemmo
esposti sulla piazza per un qualche minuto. Tornò Nedo, e dietro di lui c’era
un altro uomo. Ci fecero scendere in fretta e ci fecero entrare nel ristorante
mentre loro pensarono a scaricare i bagagli e a portarli dentro. Più tardi Nedo
tese la mano a mio padre e ci augurò buona fortuna. Si rimise il cappello sulla
testa e uscì. Udii il rumore della Balilla che si allontanava e
improvvisamente, senza una ragione, preferii essere con lui sull’automobile.
«Ben
arrivati, vi stavamo aspettando» disse l’uomo che prima era uscito con Nedo.
«Sono
Primo e gestisco la trattoria con mia moglie Rosa. La vostra camera è già
pronta, se volete vi accompagno».
Prima
di salire in camera diedi un’occhiata intorno. Nel salone principale regnava
una quiete che non ho più provato entrando in un altro locale. I tavoli di
legno, con le sedie capovolte a gambe all’aria, erano sparsi qua e là. Si
percepiva appena l’odore di tabacco e di vino.
Di
giorno non potevamo uscire, dovevamo rimanere chiusi nella nostra camera. Gino
leggeva tutto il tempo, io mi annoiavo, mio padre e mia madre discutevano in
continuazione. La signora Rosa ci portava da mangiare e ogni tanto si
intratteneva con la mamma. La sera però, dopo una certa ora, quando ormai non
c’era proprio più nessun cliente, scendevamo da basso. Mio padre e Primo
giocavano a carte e discutevano di politica. Primo era da sempre antifascista e
per questa sua avversione al regime aveva subìto un paio d’anni di confino in
Basilicata. Dopo l’8 settembre la sua trattoria si trasformò in una specie di
rifugio per chi cercava di fuggire in Svizzera.
Passò
quasi una settimana e la data fissata per tentare l’espatrio si avvicinava.
Quasi tutto il paese era al corrente delle faccende della trattoria e dei
sentimenti di Primo e di sua moglie. Pertanto, anche se per precauzione non
uscivamo mai dall’osteria, la gente sapeva che c’eravamo. Lo sapeva anche il
commissario prefettizio che però non aveva proprio voglia di farsi dei nemici
in paese.
Fu
così che un giorno conobbi Maria. Una mattina mentre ancora dormivano tutti,
sgattaiolai fuori della stanza e mi precipitai da Rosa. Non sapevo che fosse in
compagnia e mi spaventai quando lo scoprii. Con lei c’era una bambina più o
meno della mia età, che appena mi vide rise.
«Bravo!
Meriteresti un premio. Per fortuna che Maria è un’amica, altrimenti avresti
messo tutti in un bel pasticcio» disse Rosa.
Il
resto della mattina la trascorsi con la mia nuova compagna. Nei giorni
successivi continuammo, appena potevamo, a giocare insieme.
Ormai
era quasi Natale e noi dovevamo assolutamente preparaci alla fuga.
«Dobbiamo
andarcene il prima possibile» insisteva mio padre
«Lo
so, lo so! Fra due notti al più tardi, te lo prometto» rispondeva Primo
Uno
dei passatori che ci doveva condurre sul confine era stato male e da soli non
potevamo affrontare i sentieri usati dai contrabbandieri senza rischiare di
imbatterci nelle pattuglie della milizia fascista. Inoltre fummo informati che
con noi sarebbe fuggito anche un’altra persona: «E’ un ebreo e ha paura come
voi, vuole a tutti i costi espatriare» raccontarono a mio padre. Si trattava di
un avvocato.
Una
sera, Primo fece chiamare mio padre nonostante nell’osteria ci fosse ancora
gente. Passò forse un’ora, poi Rosa entrò in camera e ci chiese di scendere.
Scendemmo senza dare troppo nell’occhio. Entrammo in cucina e vedemmo, seduti allo
stesso tavolo, mio padre, Primo, un uomo e un ragazzo vestiti da contadini, e
un’altra persona dai modi distinti.
«Questa
è la mia famiglia» disse mio padre
«Questo
signore è l’avvocato Franceschini» ci disse di rimando Primo indicando l’uomo
distinto che chinò cortesemente la testa in segno di saluto.
«L’avvocato
partirà con noi. Loro due sono le nostre guide, Domenico e suo figlio Guido.
Adesso ascoltate bene. Per domani dovremo essere pronti. Domenico e Guido ci
accompagneranno a Blevio passando per i sentieri del bosco. Qui, con una barca,
passeremo sull’altra sponda. Poi ci dirigeremo verso Laglio. Cammineremo quasi
tutta la notte e arriveremo in Svizzera dal Bisbino accompagnati da un’altra
persona che non è qui questa sera e non so dirvi chi sia. Quando sarà il
momento lo scopriremo» spiegò a tutta la famiglia mio padre.
Poi papà si rivolse direttamente a me ponendo
le sue lunghe braccia sulle mie spalle:
«Ho
voluto spiegarvi bene la situazione perché nessuno si deve lamentare. Hai
capito Paolo? Devi comportarti come un uomo per una volta, me lo prometti?».
Lo
guardai negli occhi e capii che era davvero preoccupato. Non si era mai
comportato così con me. Rimasi colpito dall’intensità dei suoi gesti, e non
sapevo cosa rispondere, ma mi feci forza e cercai di essere convincente:
«Si
papà. Te lo prometto»
«Ora
andate a riposare e cercate di dormire» si raccomandò ancora papà.
Ci
ritirammo e l’ultima cosa di cui sentii parlare era di franchi, di oro e di
assegni bancari.
Le
cose però non andarono come ci aveva spiegato papà. La mattina dopo si era già
alla vigilia di Natale. A Brunate quell’anno tirava aria di neve. Rosa in
cucina preparava da mangiare con maestria culinaria. C’era da restarci secchi
con l’acquolina in bocca solo a sentire gli odori.
Mi
destai dal letto di buon’ora e scesi da basso. Rosa non mi degnò di uno
sguardo, disse che stava cucinando per il pranzo natalizio. Ricordo che provai
un po’ di invidia. Tornai di sopra imbronciato e mi rimisi nel lettone tra mio
padre e mia madre. Noi eravamo ebrei, il Natale non lo festeggiavamo e ad ogni
modo le nostre preoccupazioni erano altre, ma io ero solo un bambino e volevo
assaggiare le leccornie di Rosa.
«Dove
sei stato?» mi domandò la mamma.
«Da
nessuna parte» risposi.
Verso
mezzogiorno ebbi però la sorpresa. Scendemmo tutti insieme, e almeno per una
volta non si pranzò in camera. Rosa aveva preparato tutto con parsimonia,
imbastendo un pranzo regale per salutarci come si conveniva ad amici graditi e
per tirarci un po’ su di morale. Anche Maria era stata invitata e nel
pomeriggio si trattenne a giocare con me a nascondino.
Al
caffè mio padre interrogò ancora una volta Primo.
«Perché
l’avvocato Franceschini non è rimasto qui con noi?»
«Perché
ha detto di avere una copertura sicura a Como che non poteva lasciare per non
destare sospetti. E’ in città da molto più tempo di voi. Ha dei documenti
falsi, e passa per un commerciante di seta»
«Sarà
qui in tempo però?»
«Si,
e se non dovesse presentarsi per tempo partirete voi soli. E’ stabilito»
I
miei genitori e Gino tornarono di sopra. Io e Maria continuammo a giocare.
Ciò
che avvenne più tardi fu terribile. Qualcuno scardinò con un calcio la porta
principale, era l’avvocato Franceschini che si piantò sull’uscio con la divisa
fascista. Poco dopo, la piazza si riempì di soldati tedeschi. Rosa e Primo si
precipitarono fuori e furono scaraventati per terra dai militari. Franceschini,
seguito da due miliziani, salì le scale. Potei udire le urla di mia madre.
Con
Maria ci eravamo nascosti dentro un grande mobile. Vidi scendere l’avvocato che
stringeva energicamente il bicipite di mio padre. Davanti a tutti c’era mio
fratello Gino con una mitra puntato alla schiena.
Uscirono
senza perdere tempo a cercarmi, Maria ne approfittò e mi condusse fuori dalla
porta della cucina che si trovava sul retro. Casa sua era poco distante.
Attraversammo la piazza lateralmente, acquattati e lesti come due topolini. Vidi
che insieme alla mia famiglia erano state fermate altre persone. C’era gente
che gridava, che voleva raggiungere ad ogni costo un figlio o un parente
stretto nel cerchio di fuoco dei soldati.
Raggiungemmo
casa di Maria senza essere scoperti. Mi portò nello scantinato e mi disse di
non aprire bocca, di non fiatare. Da quel nascondiglio potevo vedere ciò che
succedeva sulla piazza. Cercai istintivamente Gino, lo vidi correre con la
forza della disperazione verso la macchia d’alberi che delimitava il ciglio
della strada. Vidi un moschetto far fuoco. Il rumore sordo del colpo che
partiva e la fiammata del proiettile in uscita. Guardai Gino. Non era stato
colpito, correva ancora, sembrava quasi arrivato al bosco. Se lo avesse
raggiunto, forse, avrebbe avuto una possibilità di far perdere le proprie tracce.
Tutto sommato era un atleta, avrebbe anche potuto farcela. Invece a tagliargli
la strada fu un soldato tedesco, Gino lo superò di slancio, ma questi fece in
tempo a scaricargli nella schiena tutto il caricatore della sua mitraglietta.
Mio fratello sobbalzò trafitto dai colpi interminabili che lo raggiunsero a
tradimento. Cadde prono, morto, con le braccia allargate come se avesse tentato
di spiccare il volo.
Mia
madre emise un lamento di dolore e fu allora che incrociò senza saperlo il mio
sguardo attonito. Franceschini gridava qualcosa ai suoi, credo che mi stesse
cercando. Caricarono tutti sui camion. La neve, intanto, era iniziata a cadere.
Quella fu l’ultima volta che vidi i miei genitori e mio fratello vivi, negli
anni che vissi senza di loro li potei incontrare solo nei sogni.
Io
mi salvai dalla guerra e dalla persecuzione. Fu il commissario prefettizio ad
aiutarmi. Raggiunsi uno zio che si era già rifugiato in Svizzera. La primavera
successiva, quando mi incamminai sui sentieri dei contrabbandieri, le prime
violette tappezzavano quasi per intero il bosco, il sole del mattino asciugava
la brina sui muschi. Seguivo la mia guida sudando per tenere quel passo
allenato. Sentivo gli uccelli cantare e ammirai un ruscello brillare mentre
scorreva, fresco, per la sua strada. Mi mettevo in salvo, ma provavo infinita
la nostalgia dei miei cari. Una nostalgia che ho per sempre custodito come una
spina nel cuore.
Ivan Bavuso
(Questo racconto è stato premiato nel 2005 al diciannovesimo concorso di narrativa indetto dal comune di Merate. Ispirato a un fatto realmente accaduto personaggi, luoghi citati e nomi sono di fantasia)
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