giovedì 27 febbraio 2014

GIRO DI RUOTA



         Quando Alfredo usciva dallo stabilimento di mobili dove lavorava, erano già le sette di sera. Iniziava al mattino presto e senza quasi fermarsi un momento incollava cassetti e avvitava maniglie. Altre volte, i cassetti e le maniglie, li imballava nei comò che dovevano essere spediti chissà dove per il mondo. All’ora di pranzo tirava fuori la “schiscetta” che gli aveva preparato la moglie. La fragranza che si sprigionava era un odore stantio di cavolfiore bollito o di altre verdure. Ogni tanto era una sorpresa trovarci mischiato alla brodaglia un bel pezzo di lesso che lo faceva felice come un bambino. Alla fine del pranzo si beveva un caffè della macchinetta automatica. Quattro chiacchiere coi colleghi sul campionato di calcio, una sigaretta, e via, di nuovo a incollare e avvitare fino al suono della sirena.

Alle sette di sera, d’estate, fuori, era ancora chiaro, ma d’inverno era buio e faceva freddo. A quell’ora inforcava la sua bicicletta e a pedalate lente e decise, imboccava il cancello della fabbrica sotto la luce instabile dei lampioni. Spariva traballando nella nebbia prima ancora del cigolio della sua due ruote.
Alfredo non era un uomo grasso, ma quando andava in bicicletta, in inverno, assomigliava all'omino Michelin. Indossava una vecchia e ingombrante giaccavento marrone, un paio di guanti da neve comprati a poco al mercato, una lunga sciarpa di lana tutta colorata e un berretto che si calava sulla testa fino a coprirsi la fronte.
Correva, parallela alla sua strada, a pochi metri di distanza, la strada provinciale. Sentiva le automobili sfrecciare veloci. Siccome il senso di marcia era opposto al suo, Alfredo vedeva i fanali delle macchine avvicinarsi come fossero due grandi occhi gialli senza faccia, occhi che lo puntavano. Erano minacciosi quegli sguardi di luce sinistra, sempre più vicini, sempre più grandi. Poi passavano oltre, ignorandolo del tutto. Alfredo si era ormai abituato e tirava avanti con l’andatura spedita di chi sa far girare la catena senza fare troppa fatica.
Ad un certo punto del percorso svoltava in una stradina secondaria. Una stradina buia, silenziosa, ancora lontana dal paese. Solo allora rallentava come se non avesse tanta fretta di arrivare a casa. Il tragitto era quasi un tormento con il freddo. A respirare nella sciarpa gli si appannavano le lenti degli occhiali, allora doveva levarsela dal naso  quella benda di lana ingombrante, e l’aria gelida lo coglieva all’improvviso con sferzate di freddo siberiano, quando poi cercava di tirarsela su di nuovo, non ci riusciva per via dei grossi guanti e si rassegnava a fare la strada che gli rimaneva a naso scoperto.
L’ultimo tratto di strada era sterrato e costeggiava campi faticosamente dissodati che somigliavano a dure croste scure. Se il cielo era sereno e c’era la luna, la superficie di quei campi era striata da cristalli di brina.
Lungo quell’ultimo strappo, il cigolio della bicicletta rompeva il silenzio circostante,  e il fiato del ciclista si faceva più affannoso. Alfredo doveva procedere con la luce intermittente alimentata dalla dinamo e che proiettava un breve cono luminoso sui sassi del sentiero. Nelle orecchie, Alfredo, aveva unicamente il passo delle ruote sul selciato. Era in quel momento che cominciava a pensare a casa, alla moglie, ai bambini. Pensava alla minestra calda, e alla partita in tv. Solo allora cominciava di nuovo a trasformarsi in un essere umano, e solo quando finalmente metteva il muso congelato dentro casa, quando finalmente sentiva gridare i suoi due discoli, quando usciva dalle tenebre fredde della sera per rifugiarsi al caldo della sua abitazione, solo in quel preciso istante, Alfredo, s’illudeva d’essere felice.    

  

    


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