Quando Alfredo usciva dallo stabilimento di mobili dove lavorava, erano
già le sette di sera. Iniziava al mattino presto e senza quasi fermarsi un
momento incollava cassetti e avvitava maniglie. Altre volte, i cassetti e le
maniglie, li imballava nei comò che dovevano essere spediti chissà dove per
il mondo. All’ora di pranzo tirava fuori la “schiscetta” che gli aveva
preparato la moglie. La fragranza che si sprigionava era un odore stantio di
cavolfiore bollito o di altre verdure. Ogni tanto era una sorpresa trovarci
mischiato alla brodaglia un bel pezzo di lesso che lo faceva felice come un
bambino. Alla fine del pranzo si beveva un caffè della macchinetta automatica.
Quattro chiacchiere coi colleghi sul campionato di calcio, una sigaretta, e
via, di nuovo a incollare e avvitare fino al suono della sirena.
Alle sette di sera, d’estate, fuori, era ancora chiaro, ma d’inverno
era buio e faceva freddo. A quell’ora inforcava la sua bicicletta e a pedalate
lente e decise, imboccava il cancello della fabbrica sotto la luce instabile
dei lampioni. Spariva traballando nella nebbia prima ancora del cigolio della
sua due ruote.
Alfredo non era un uomo grasso, ma quando andava in bicicletta, in
inverno, assomigliava all'omino Michelin. Indossava una vecchia e ingombrante
giaccavento marrone, un paio di guanti da neve comprati a poco al mercato, una
lunga sciarpa di lana tutta colorata e un berretto che si calava sulla testa
fino a coprirsi la fronte.
Correva, parallela alla sua strada, a pochi metri di distanza, la
strada provinciale. Sentiva le automobili sfrecciare veloci. Siccome il senso
di marcia era opposto al suo, Alfredo vedeva i fanali delle macchine
avvicinarsi come fossero due grandi occhi gialli senza faccia, occhi che lo
puntavano. Erano minacciosi quegli sguardi di luce sinistra, sempre più vicini,
sempre più grandi. Poi passavano oltre, ignorandolo del tutto. Alfredo si era
ormai abituato e tirava avanti con l’andatura spedita di chi sa far girare la
catena senza fare troppa fatica.
Ad un certo punto del percorso svoltava in una stradina secondaria. Una
stradina buia, silenziosa, ancora lontana dal paese. Solo allora rallentava
come se non avesse tanta fretta di arrivare a casa. Il tragitto era quasi un
tormento con il freddo. A respirare nella sciarpa gli si appannavano le lenti
degli occhiali, allora doveva levarsela dal naso quella benda di lana ingombrante, e l’aria
gelida lo coglieva all’improvviso con sferzate di freddo siberiano, quando poi
cercava di tirarsela su di nuovo, non ci riusciva per via dei grossi guanti e
si rassegnava a fare la strada che gli rimaneva a naso scoperto.
L’ultimo tratto di strada era sterrato e costeggiava campi
faticosamente dissodati che somigliavano a dure croste scure. Se il cielo era
sereno e c’era la luna, la superficie di quei campi era striata da cristalli di
brina.
Lungo quell’ultimo strappo, il cigolio della bicicletta rompeva il
silenzio circostante, e il fiato del
ciclista si faceva più affannoso. Alfredo doveva procedere con la luce
intermittente alimentata dalla dinamo e che proiettava un breve cono luminoso
sui sassi del sentiero. Nelle orecchie, Alfredo, aveva unicamente il passo
delle ruote sul selciato. Era in quel momento che cominciava a pensare a casa,
alla moglie, ai bambini. Pensava alla minestra calda, e alla partita in tv.
Solo allora cominciava di nuovo a trasformarsi in un essere umano, e solo
quando finalmente metteva il muso congelato dentro casa, quando finalmente
sentiva gridare i suoi due discoli, quando usciva dalle tenebre fredde della
sera per rifugiarsi al caldo della sua abitazione, solo in quel preciso
istante, Alfredo, s’illudeva d’essere felice.
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