Lidia prese la decisione
definitiva di mandarmi via di casa quella mattina che mi vide scendere da un
taxi vestito con abiti non miei. Indossavo una tuta da ginnastica orribile,
tutta macchiata di grasso. Ero scalzo e avevo un occhio gonfio e livido. Dissi
al tassista di attendere un momento che sarei andato dentro a prendere il
denaro per risarcirlo della corsa. Aprii la porta che dava sul vialetto
d’ingresso della villetta a schiera di Lidia e lei era lì ad aspettarmi. Si
stringeva la mano sulla bocca e piangeva senza fare rumore. Era ancora in
pigiama. Le passai accanto senza dire
niente. Tornai poco dopo con un paio di banconote da cinquanta euro, le porsi
al tassista e attesi il resto. Guardai la Focus Berlina, di un bianco sporco,
allontanarsi con la scritta fuori servizio incollata al display della cappotta.
Non avevo il coraggio di rientrare. Lidia mi osservava smarrita da dietro la
portafinestra, sentivo i suoi occhi su di me. Era come venire attraversato da
fluidi ectoplasmatici, una sorta di melassa appiccicosa carica di afflizione e
delusione. Mi sentivo una merda e mi dispiaceva far soffrire Lidia a quel modo.
Posso giurarlo, mi dispiaceva davvero.
«Dove sei stato? Perché sei
vestito così? Dov’è la mia macchina? E le tue scarpe? Cosa significa il taxi?»
Lidia gridava e pretendeva una
spiegazione. Mi incalzava di domande mentre io cercavo di abbracciarla. Un
ridicolo tentativo di lenire le sue ferite, le ennesime che le avevo inflitto.
«Calmati tesoro… Posso
spiegarti… Non fare così, ti prego…» Mi sentivo patetico, ma cos’altro potevo
fare? Tentai di prendere tempo per inventarmi un scusa che potesse reggere. Non
ce n’era nessuna. Per come si presentavano le cose, potevo anche inventarmi di
essere stato rapito dagli alieni. Un balla valeva l’altra. E quella degli
alieni non sarebbe stata la meno verosimile.
«Calmati un cazzo! Hai capito…
Io non mi calmo se non mi dici quello che è successo. LA VERITA’ CRISTO SANTO,
SOLO LA VERITA’»
Mi passai la mano tra i
capelli, sentii un bozzo in testa là dove ero stato preso a bastonate dai
magnaccia. «Posso almeno andare a farmi una doccia prima?» domandai con fare
vile.
«NOOO! Porca puttana… NOOO!»
Sospirai e mi lasciai
sprofondare nel divano. Lidia mi venne davanti. Era spettinata peggio di me.
Tutta rossa in viso per la congestione del pianto e per la rabbia che stentava
a trattenere. Mi resi conto solo in quel momento di amare quella donna, che non
volevo perderla per nessun motivo al mondo. Capii che anche lei, nonostante
tutto, continuava a volermi bene. Era una cosa inspiegabile, ma Lidia mi voleva
ancora bene. Vedevo però, altrettanto lucidamente, che era arrivata al limite
di qualsiasi umana sopportazione. Non poteva più andare avanti così, e non era
solo per quello che le stavo per raccontare. Era che stare con uno come me,
alla lunga, diventava sfiancante. Impossibile. Per fortuna non avevamo figli,
mi dissi.
Ero stato in un night rumoroso
e malfrequentato pieno di albanesi e romeni. Romene e albanesi erano le
spogliarelliste e io mi convinsi che anche i clienti dovevano appartenere alla
stessa nazionalità, ma a dire la verità non avevo scambiato una sola parola con
nessuno, quindi non potevo sapere se gli altri erano davvero chi mi ero
immaginato che fossero.
Perché ero finito lì? Dio solo
lo sa. Stavo attraversando uno dei miei soliti periodi di blackout. Lidia li chiamava così perché era come se mi trascinassi
stancamente nel buio esistenziale. Mi capitava spesso di camminare sull’orlo
della depressione, ma poi, quando sembrava che sarebbe stato sufficiente un
battito d’ali di farfalla a farmi precipitare, ecco che mi ridestavo e di colpo
recuperavo energie e vigore.
Quando mi prendeva male, dovevo
fare qualcosa di diverso. Come un serpente dovevo cambiare la pelle e
infilarmene una nuova, anche solo per poco tempo. Cercavo sempre di evadere con
qualche piccola e sopportabile trasgressione che non volevo però si sapesse in
giro. Così mi trasformavo in nottambulo e per stare lontano da casa inventavo
qualche stupida scusa del tipo che mi toccava seguire, per il giornale con cui
collaboravo, noiosissimi consigli comunali, che in genere duravano fino a notte
inoltrata.
Anche quella sera ce n’era uno.
Ma si trattava di una formalità su cui non avrei scritto neppure trenta righe e
che, se le avessi scritte, mi avrebbero fruttato non più di undici euro lordi.
Quindi non valeva la pena andarci, e se i politici della città litigavano
sarebbero stati affari loro. Allo stronzo redattore, invece, avrei inventato
una qualche scusa del cazzo.
Ero entrato alla Cavallina, questo il nome del night, per
rifarmi gli occhi. Nei momenti bui, il sesso era diventata un’ossessione. Le
luci stroboscopiche illuminavano le ragazze, che si esibivano a turno
sull’unica pista circolare del locale, facendole sembrare dei robot snodati.
Tette e culi tremavano e si scuotevano con la grazia che avrebbe avuto una
Salomè col Parkinson.
Piantato in mezzo alla pista
c’era il palo della lap dance, sul
quale, le signorine discinte, si strusciavano e s’aggrappavano come l’edera alle
colonne di certe ville.
La prima ragazza a mettere in
mostra la propria mercanzia era una piccoletta travestita da cow girl. Indossava un cappellone a tese
larghe, un mini gilet beige, un perizoma con le frange e un paio di stivali con
la punta di ferro. Non aveva neppure le pistole. Si contorse intorno a palo per
parecchi minuti prima di presentarsi al pubblico come mamma l’aveva messa al
mondo, meno di vent’anni prima. Gli ululati e gli strepiti dei clienti le
fecero capire di essere stata gradita e la spinsero a infilarsi le dita nella
vagina. Le leccò e uscì di scena, seguita da una salva di fischi arrapati.
La seconda ragazza era una
poliziotta.
«O porca troia, non tutti i Village People per favore» mormorai.
«E invece ti toccherà
sorbirteli tutti a meno che non mi permetti di tenerti un po’ di compagnia» mi
disse una moretta dagli occhi da gatta. Senza che la invitassi formalmente si
sedette al mio tavolo e ordinò una bottiglia di spumante. Avrei voluto
sottrarmi a quella compagnia, che sapevo mi avrebbe fatto accendere un mutuo
prima di poter uscire dal locale, ma non ne fui capace.
La ragazza era alta e snella,
inguainata in una tutina di pelle nera che le risaltava le curve. La scollatura
era ampia e lasciava ben poco all’immaginazione. Due capezzoli duri come chiodi
premevano con insistenza sul davanti nel disperato tentativo di bucare la tuta
e uscire all’aria aperta.
«Sei uscita da un fumetto?» le
dissi.
«No! Sono vera dalla testa ai
piedi, come puoi appurare» E mentre diceva così mi prese una mano e se la
strinse fra le cosce.
Ebbi una repentina erezione e
con la mano percorsi per intero tutta la lunghezza del femore, per poi tornare
indietro e risalire il fianco di quella dea tentatrice. Lei gemette, ma fermò
la mia rincorsa che era diretta al seno. Bevemmo velocemente la prima bottiglia,
parlando di niente. Alla seconda la mia lingua si sciolse e le raccontai della
mia infanzia felice e piena di illusioni. Della mia passione per la scrittura.
Del cancro di mia madre e del suo ultimo anno di vita. Le raccontai di Lidia.
Lei, al contrario, mi ascoltava e ogni tanto mi accarezzava sulla guancia. A un
certo punto mi baciò anche, sulla bocca. Un bel bacio, tenero e passionale al
tempo stesso. Allungò appena una punta di lingua che fece roteare con abilità.
«Vuoi stare con me questa
sera?» mi sibilò nell’orecchio.
«Sì» risposi senza esitazione.
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