giovedì 12 novembre 2015

Pub (parte terza)

Lidia prese la decisione definitiva di mandarmi via di casa quella mattina che mi vide scendere da un taxi vestito con abiti non miei. Indossavo una tuta da ginnastica orribile, tutta macchiata di grasso. Ero scalzo e avevo un occhio gonfio e livido. Dissi al tassista di attendere un momento che sarei andato dentro a prendere il denaro per risarcirlo della corsa. Aprii la porta che dava sul vialetto d’ingresso della villetta a schiera di Lidia e lei era lì ad aspettarmi. Si stringeva la mano sulla bocca e piangeva senza fare rumore. Era ancora in pigiama.  Le passai accanto senza dire niente. Tornai poco dopo con un paio di banconote da cinquanta euro, le porsi al tassista e attesi il resto. Guardai la Focus Berlina, di un bianco sporco, allontanarsi con la scritta fuori servizio incollata al display della cappotta. Non avevo il coraggio di rientrare. Lidia mi osservava smarrita da dietro la portafinestra, sentivo i suoi occhi su di me. Era come venire attraversato da fluidi ectoplasmatici, una sorta di melassa appiccicosa carica di afflizione e delusione. Mi sentivo una merda e mi dispiaceva far soffrire Lidia a quel modo. Posso giurarlo, mi dispiaceva davvero.

 «Dove sei stato? Perché sei vestito così? Dov’è la mia macchina? E le tue scarpe? Cosa significa il taxi?»
Lidia gridava e pretendeva una spiegazione. Mi incalzava di domande mentre io cercavo di abbracciarla. Un ridicolo tentativo di lenire le sue ferite, le ennesime che le avevo inflitto.
«Calmati tesoro… Posso spiegarti… Non fare così, ti prego…» Mi sentivo patetico, ma cos’altro potevo fare? Tentai di prendere tempo per inventarmi un scusa che potesse reggere. Non ce n’era nessuna. Per come si presentavano le cose, potevo anche inventarmi di essere stato rapito dagli alieni. Un balla valeva l’altra. E quella degli alieni non sarebbe stata la meno verosimile.
«Calmati un cazzo! Hai capito… Io non mi calmo se non mi dici quello che è successo. LA VERITA’ CRISTO SANTO, SOLO LA VERITA’»
Mi passai la mano tra i capelli, sentii un bozzo in testa là dove ero stato preso a bastonate dai magnaccia. «Posso almeno andare a farmi una doccia prima?» domandai con fare vile.
«NOOO! Porca puttana… NOOO!»
Sospirai e mi lasciai sprofondare nel divano. Lidia mi venne davanti. Era spettinata peggio di me. Tutta rossa in viso per la congestione del pianto e per la rabbia che stentava a trattenere. Mi resi conto solo in quel momento di amare quella donna, che non volevo perderla per nessun motivo al mondo. Capii che anche lei, nonostante tutto, continuava a volermi bene. Era una cosa inspiegabile, ma Lidia mi voleva ancora bene. Vedevo però, altrettanto lucidamente, che era arrivata al limite di qualsiasi umana sopportazione. Non poteva più andare avanti così, e non era solo per quello che le stavo per raccontare. Era che stare con uno come me, alla lunga, diventava sfiancante. Impossibile. Per fortuna non avevamo figli, mi dissi.

Ero stato in un night rumoroso e malfrequentato pieno di albanesi e romeni. Romene e albanesi erano le spogliarelliste e io mi convinsi che anche i clienti dovevano appartenere alla stessa nazionalità, ma a dire la verità non avevo scambiato una sola parola con nessuno, quindi non potevo sapere se gli altri erano davvero chi mi ero immaginato che fossero.
Perché ero finito lì? Dio solo lo sa. Stavo attraversando uno dei miei soliti periodi di blackout. Lidia li chiamava così perché era come se mi trascinassi stancamente nel buio esistenziale. Mi capitava spesso di camminare sull’orlo della depressione, ma poi, quando sembrava che sarebbe stato sufficiente un battito d’ali di farfalla a farmi precipitare, ecco che mi ridestavo e di colpo recuperavo energie e vigore.
Quando mi prendeva male, dovevo fare qualcosa di diverso. Come un serpente dovevo cambiare la pelle e infilarmene una nuova, anche solo per poco tempo. Cercavo sempre di evadere con qualche piccola e sopportabile trasgressione che non volevo però si sapesse in giro. Così mi trasformavo in nottambulo e per stare lontano da casa inventavo qualche stupida scusa del tipo che mi toccava seguire, per il giornale con cui collaboravo, noiosissimi consigli comunali, che in genere duravano fino a notte inoltrata. 
Anche quella sera ce n’era uno. Ma si trattava di una formalità su cui non avrei scritto neppure trenta righe e che, se le avessi scritte, mi avrebbero fruttato non più di undici euro lordi. Quindi non valeva la pena andarci, e se i politici della città litigavano sarebbero stati affari loro. Allo stronzo redattore, invece, avrei inventato una qualche scusa del cazzo.
Ero entrato alla Cavallina, questo il nome del night, per rifarmi gli occhi. Nei momenti bui, il sesso era diventata un’ossessione. Le luci stroboscopiche illuminavano le ragazze, che si esibivano a turno sull’unica pista circolare del locale, facendole sembrare dei robot snodati. Tette e culi tremavano e si scuotevano con la grazia che avrebbe avuto una Salomè col Parkinson.
Piantato in mezzo alla pista c’era il palo della lap dance, sul quale, le signorine discinte, si strusciavano e s’aggrappavano come l’edera alle colonne di certe ville.
La prima ragazza a mettere in mostra la propria mercanzia era una piccoletta travestita da cow girl. Indossava un cappellone a tese larghe, un mini gilet beige, un perizoma con le frange e un paio di stivali con la punta di ferro. Non aveva neppure le pistole. Si contorse intorno a palo per parecchi minuti prima di presentarsi al pubblico come mamma l’aveva messa al mondo, meno di vent’anni prima. Gli ululati e gli strepiti dei clienti le fecero capire di essere stata gradita e la spinsero a infilarsi le dita nella vagina. Le leccò e uscì di scena, seguita da una salva di fischi arrapati.
La seconda ragazza era una poliziotta.
«O porca troia, non tutti i Village People per favore» mormorai.
«E invece ti toccherà sorbirteli tutti a meno che non mi permetti di tenerti un po’ di compagnia» mi disse una moretta dagli occhi da gatta. Senza che la invitassi formalmente si sedette al mio tavolo e ordinò una bottiglia di spumante. Avrei voluto sottrarmi a quella compagnia, che sapevo mi avrebbe fatto accendere un mutuo prima di poter uscire dal locale, ma non ne fui capace.
La ragazza era alta e snella, inguainata in una tutina di pelle nera che le risaltava le curve. La scollatura era ampia e lasciava ben poco all’immaginazione. Due capezzoli duri come chiodi premevano con insistenza sul davanti nel disperato tentativo di bucare la tuta e uscire all’aria aperta.
«Sei uscita da un fumetto?» le dissi.
«No! Sono vera dalla testa ai piedi, come puoi appurare» E mentre diceva così mi prese una mano e se la strinse fra le cosce.
Ebbi una repentina erezione e con la mano percorsi per intero tutta la lunghezza del femore, per poi tornare indietro e risalire il fianco di quella dea tentatrice. Lei gemette, ma fermò la mia rincorsa che era diretta al seno. Bevemmo velocemente la prima bottiglia, parlando di niente. Alla seconda la mia lingua si sciolse e le raccontai della mia infanzia felice e piena di illusioni. Della mia passione per la scrittura. Del cancro di mia madre e del suo ultimo anno di vita. Le raccontai di Lidia. Lei, al contrario, mi ascoltava e ogni tanto mi accarezzava sulla guancia. A un certo punto mi baciò anche, sulla bocca. Un bel bacio, tenero e passionale al tempo stesso. Allungò appena una punta di lingua che fece roteare con abilità.
«Vuoi stare con me questa sera?» mi sibilò nell’orecchio.

«Sì» risposi senza esitazione.

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