martedì 21 gennaio 2014

Non chiamatemi Pasqualina

Uscì dalla siepe col manubrio della bicicletta storto, i vestiti strappati e i capelli scompigliati. Sul viso un’espressione indifferente come se nulla fosse accaduto. Invece l’avevamo vista tutti. Tutti avevamo visto che aveva ignorato la curva della ciclabile per infilarsi come un cartone animato tra i rovi. Ne era uscita mezza scorticata, ma aveva inforcato di nuovo il sellino, che s’era girato di 45 gradi su se stesso, e s’era rimessa a pedalare. Nessuno aveva detto nulla. Non ne avevamo avuto il coraggio. Ci limitammo a guardarci in faccia trattenendo a stento le risate. Lei se ne accorse e smise di pedalare.


«Dai fermati Lina, metti almeno a posto il manubrio e la sella altrimenti cadi di nuovo».

Lina, testarda, non raddrizzò proprio niente. Mentre si allontanava mi chiesi come fosse possibile andare in bicicletta a quel modo. Mi vennero in mente quei cagnolini ammaestrati che si esibiscono nei circhi. Quando tornò, i croissant che aveva adagiato nel cestino sgangherato erano ancora fumanti.

 Mia madre era così; permalosa e generosa al tempo stesso. Era una donna piena di contraddizioni. Non era bella, ma lo era stata da giovane. Nei primi anni Settanta s’era fatta crescere una chioma fluente e corvina che le arrivava alla chiappe. Era piccola, nervosa e con la fissa della dieta e del nome. Si chiamava Pasqualina Colucci, ma non aveva mai perdonato il suo adorato padre per averle affibbiato quel nome da festività minore. Decise così di abbreviare e si fece chiamare con le sole due ultime sillabe.

«I sogni non si realizzano mai. Sapeste quante cose avrei voluto fare io e non sono riuscita a concludere mai niente, ve ne accorgerete quando sarete più grandi» ci diceva sempre. Era cinica e spietata, spesso vittima delle proprie ambizioni frustrate. Un po’ la capivo e un po’ mi faceva incazzare. Mia madre ed io eravamo sempre in battaglia l’uno contro l’altra.

«Sei identico a tuo padre» mi gridava. E invece, a parte il fisico, io era come lei.

Amava leggere. Leggeva di tutto. Soprattutto romanzi. Leggeva romanzi impegnati, ma divorava anche gli Harmony. Colpa sua se mi intestardii con la letteratura. Da piccolo leggevo di nascosto le riduzioni dei grandi romanzi d’autore che lei acquistava non so dove.

 Ricordo che lessi, tra quei libri, “I ragazzi venuti dal Brasile” e lo “Squalo”, poi altro. Ok lo “Squalo” non è un romanzo d’autore ma sugli scaffali aveva anche Dostojevski.

Mio padre era sempre fuori casa per lavoro, rientrava solo il venerdì sera e il sabato mattina era di nuovo in ditta per caricare il camion e ripartire la domenica notte. L’educazione mia e di mio fratello era delegata alla donna di casa. Un pomeriggio mentre c’eravamo messi a tavola per il the ricevemmo una telefonata. Rispose mia madre. La sua fronte stretta s’increspò in un’infinità di rughe, i suoi occhi scuri m’inchiodarono neanche fossero due puntatori laser. Annuiva e mugugnava. Il biscotto mezzo inzuppato mi s’afflosciò sul cucchiaio e cadde nella tazza, il mio umore aveva più o meno fatto la stessa fine. La telefonata terminò e mia madre riappese il ricevitore.

«È successo qualcosa questa mattina a scuola?»

«No mamma non è successo nulla. Cosa dovrebbe essere successo?»

«Non lo so! Dimmelo tu»

Silenzio di tomba. Mi voltai verso mio fratello che aveva appena sei anni, se la rideva lui. Non capiva ancora un cazzo, ma aveva gli stessi occhi furbi di mia madre.

«Avete mostrato dei preservativi al supplente di Musica per caso?

Ecco cos’era. Ovvio, che stupido. Si che glieli avevamo mostrati. Anzi li avevamo anche gonfiati e lanciati per la classe. Beh! Mi sembrava potesse essere derubricato a reato minore…evidentemente non tutti la pensavano così.

A chiamare mia madre, rappresentante di classe in quell’anno di seconda media, era stata la mamma della Morandi una mia compagna, figlia di un cardiologo che evidentemente non aveva apprezzato lo show.

«Mamma – le dissi - Credimi non sono stato io a rubarli in farmacia, sono stati gli altri».

Lei mi guardò per un lunghissimo istante, poi scoppiò a ridere. La ricordo piegata in due dalle risate e con le lacrime agli occhi. Mio fratello che continuava a non capire un cazzo si mise a ridere come un pazzo anche lui. Si sa! le risate sono contagiose e finii per unirmi a loro. Ridemmo così tanto che se qualcuno ci avesse visto avrebbe fatto analizzare all’antidroga le bustine di the.

Quel giorno, con mia grande sorpresa, scoprii che mia madre possedeva anche un grande senso dell’umorismo. Oggi che è solo un mucchietto di cenere dietro una lapide di marmo bianco la vorrei fare arrabbiare o ridere di nuovo e chissà non è detto che un giorno o l’altro non ci riesca davvero. Magari sussurrandole quel nome che aveva così tanto disprezzato….

Pasqualina….Pasqualina….Pasqualina…

Lina…Linaaaaa…..  

Nessun commento:

Posta un commento