martedì 8 settembre 2015

Pub (prima parte)


Il pub puzza di fritto e di sudore. Di fumo stantio di sigarette. Sono anni ormai che il fumo è stato bandito dai locali, ma evidentemente il suo odore s’è talmente impregnato nel legno del bancone e in quello dei tavoli, che si sente ancora, soprattutto se sei abbastanza sbronzo da pensarci, e se quello che desideri è proprio il tiro di una Marlboro o di una sigaretta di qualsiasi altra marca.

«Ho smesso di fumare circa cinque anni fa, ma forse è ora di ricominciare» dico al tizio seduto su uno sgabello a un paio di metri da me.
Il tizio è messo male, anch’io non sono una rosa, ma lui sta peggio. Non mi sente neppure. Sembra avere affogato i suoi drammi nella birra. Sta stringendo un grosso boccale che si porta goffamente alla  bocca con la destra. È così bevuto che all’ennesimo tentativo di sorseggiare la bionda bevanda si spacca il labbro superiore con il bordo del bicchiere. La birra gli finisce sulla camicia mentre il labbro inizia a sanguinare, ma non sembra che il suo sistema nervoso abbia informato il cervello della ferita.
«Ehi!» gli grido «Ce l’hai una cazzo di sigaretta?»
Quello si gira verso di me. Ha lo sguardo vacuo di uno che fatica a mettere a fuoco, mi fissa senza rispondermi poi solleva la birra in segno di saluto.
«Te la do io una sigaretta, non vedi che non si regge in piedi. È il solito cliente che devo sbattere fuori quando chiudo» mi dice il barista che nel frattempo mi ha allungato una cicca. La prendo e me la infilo in bocca. «Non ho da accendere.»
Il barista tira fuori uno zippo d’argento con inciso qualcosa che non riesco a decifrare e fa scattare la fiamma. Prima di avvicinarmi con la sigaretta lo guardo negli occhi. Lui fa un cenno di assenso con la testa e dice: «Non preoccuparti, a quest’ora nessuno romperà per una sigaretta».
Anche lui se ne accende una e inizia a passare lo straccio sul bancone prima di dedicarsi ai boccali da un litro rovesciati sul piano alle sue spalle e ancora bagnati dall’acqua della lavastoviglie.
Il posto è un Irish pub, uno di quelli aperto alla metà degli anni Novanta in un capannone industriale dismesso. All’epoca faceva un sacco di soldi, oggi non lo so. Era una vita che non ci mettevo piede. Il locale era un po’ cambiato, non tanto, ma un po’ sì.
L’ubriacone e io non siamo gli ultimi clienti della serata. Ci sono ancora un paio di compagnie che vociano su alcuni tavoli all’aperto. Presto se ne andranno. L’orologio a muro a forma di folletto, attaccato a un chiodo, accanto all’insegna della Guinnes, mi dice che manca ancora un quarto d’ora alle due.
«Sono uno scrittore» dico all’improvviso, senza rivolgermi a nessuno in particolare.
«Ah sì! E che hai scritto?» mi fa il barista girandosi. Sta asciugando un bicchiere e dalla bocca gli pende la sigaretta. Lo guardo con ammirazione, perché non sono mai stato capace di tenere la sigaretta così e di fumarla interamente senza stringerla tra le dita. A un certo punto, prima di smettere, mi erano anche diventate gialle.
«Ho scritto un sacco di cose.»
«Tipo?» mi incalza ancora il barista.
«Tante…» rispondo, roteando in aria il piccolo calice ambrato di liquore. «Tante di tutti i tipi.»
«Dimmi un titolo, magari è un libro che ho letto.»
Che cazzone che sono! Penso. Pure il barista colto dovevo trovare.
«Una libbra di scimmia».
Il barista scuote la testa: «Mai sentito».
«Per forza, non è mai stato pubblicato!» gli dico e ingollo d’un fiato l’amaro che avevo ordinato.

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