mercoledì 7 ottobre 2015

Pub (seconda parte)

C’era mancato poco però che lo pubblicassi quel romanzo da quattro soldi. C’ero andato davvero vicino, poi tutto era sfumato. Il titolo non era granché e a dirla tutta neppure la storia, ma non era scritta male e un editore lo avevo trovato. Mi aveva chiesto di sistemare un po’ la trama dandomi qualche dritta, di cambiare il titolo, insomma, di aggiustarlo un po’. Avevo tre mesi di tempo per rendere il testo dignitoso per la stampa. Un giorno mi chiama l’editore al telefono e quando capisco che è lui riattacco la cornetta. Lui richiama per tutto il pomeriggio e la sera seguente, mi lascia qualche messaggio in segreteria, ma io non gli rispondo mai. Mi spedisce anche delle mail, che mi guardo bene dall’aprire. Alla fine si stanca e mi manda a quel paese.


Il tizio del bar è knockout. È steso con la testa sul bancone e le braccia larghe. È un miracolo che sia ancora seduto sullo sgabello. Le compagnie fuori del locale si sono date e il barista ha finito di lavare i bicchieri.
«Lo conosci?» domando.
«So chi è» risponde il barista.
«Offrimi un’altra sigaretta e fammi una chiara piccola.»
Il tizio dietro al bancone solleva il sopracciglio sinistro e fa una smorfia con l’angolo della bocca, però mi tira dietro l’ennesima sigaretta e mi prepara la birra. Sono le due e mezza. Gli chiedo perché non mi abbia già fatto uscire a calci nel culo. Lui si avvicina appoggiando gli avambracci sul legno unto del bancone e dice: «Perché sei uno scrittore sfigato che non ha pubblicato un cazzo, ma… non si sa mai, magari diventi famoso e finisce che mi sputtani in qualche storia. Non voglio essere proprio io il troglodita che ha maltrattato il nuovo Bukowski.»
Sorrido per l’ironia e perché l’idea di diventare famoso come quel vecchio puttaniere alcolizzato mi solletica la fantasia.

Una volta, ero conciato proprio male, i miei amici mi trovarono carponi sull’orlo di una pozzanghera in mezzo a una strada. Mi abbeveravo a quel brodo oleoso come un cane con la rogna. Si misero tutti a ridere e finii per diventare lo zimbello del quartiere. Mi soprannominarono Pozza. Io li lasciai fare. Quella storia andò avanti per un po’, fino a quando, una sera, al biliardo, proprio mentre stavo per imbucare la otto e chiudere la partita, mi chinai e feci partire una scorreggia che fece ammutolire il locale.
«Cazzo Pozza, che schifo! Che ti sei mangiato a cena il compost del vicino?» disse qualcuno.
Poi il Biondo, che era un po’ il nostro capo combriccola e che, se ci si metteva, sapeva essere più stronzo della governante di Heidi, iniziò a sfottere: «Pozza Puzza… Pozza Puzza… Pozza Puzza…»
Sembrava un bambino dell’asilo. Anche gli altri si unirono alla cantilena: Pozza Puzza… Pozza Puzza… Pozza Puzza…
La stecca frustò l’aria come la katana di un samurai e si schiantò sui denti del Biondo che cominciò a sputarli uno a uno. Gettai sul tavolo da gioco quel che restava dell’asta e me ne andai via.
Ricominciarono a chiamarmi col mio vero nome.

Portiamo il tizio ubriaco fuori dal pub a forza di braccia. Lui si fa trascinare senza neppure tentare di mettere un piede davanti all’altro. La testa gli penzola floscia come una palla di stracci appesa a una giostra.
«Questo è in coma etilico, sarà meglio chiamare un’ambulanza» dico.
Il barista ci pensa su un momento, lo fa sedere su una panchina della veranda e lo prende a schiaffi. L’uomo mugugna qualcosa di incomprensibile.
«Ehi! Come ti senti? Dobbiamo chiamare qualcuno?»
L’ubriaco solleva la palla di stoffa, un rivolo di bava gli cola dalla bocca. Ha gli occhi semichiusi e i capelli scomposti e appiccicati alla fronte. Un velo di barba scura gli colora le guance e il mento. Sotto i lampioni gialli dell’illuminazione stradale il contrasto tra la barba e il pallore del viso è assurdo. Ci stiamo prendendo cura di un fantasma.
«Non voglio nessuno» riesce a dire con uno sforzo che sembra eguagliare quello delle dodici fatiche di Ercole: «Portatemi in macchina.»
Nel parcheggio ci sono solo due macchine: la mia auto è una Clio del 2007, ammaccata sulla fiancata posteriore dal 2008, e c’è un BMW X1 appena uscito dal concessionario. La moto del barista, invece, è sul retro del locale.
Infilo la mano nelle tasche dell’uomo e trovo le chiavi della sua BMW. Mentre lo trasportiamo l’uomo sbocca tutta la birra che si è buttato giù quella sera. Mi insozza una scarpa e avrei voglia di lasciarlo lì per terra, con la faccia incollata al suo vomito. Ma il barista non è della stessa idea.
Ora il tizio sembra reggersi da solo. Prima di arrivare alla macchina si piega in due ancora una volta, ma quello che gli viene fuori dalla cavità orale è solo un po’ di bile schiumosa.
«Sto bene… Sto bene, grazie… Grazie» dice, mentre barcolla nel parcheggio. Si fruga nella tasca alla ricerca del mazzo di chiavi che però non riesce a trovare. Faccio scattare il telecomando e le frecce della X 1 illuminano lo spazio desolato del posteggio. Il tizio sembra essere colto di sorpresa, poi si gira e capisce. Gli tiro le chiavi, ma lui non le afferra e gli cadono fra i piedi. Le raccoglie, apre la portiera, e s’infila sul sedile in pelle della sua bella macchina.
Anche io sono un po’ ubriaco, mi gira la testa e mi brucia maledettamente lo stomaco. Il barista s’infila una sigaretta in bocca e mi porge il filtro arancione dell’ultima paglia che sbuca dal pacchetto sgonfio. Fumiamo insieme. Il tizio ha reclinato il sedile, non sembra intenzionato a guidare in quello stato. Meno male, ha più sale in zucca di quel che credevo.
Ci avviciniamo. «Guarda che non mi hai pagato gli ultimi giri» gli dice il barista. L’uomo russa. S’è addormentato. Il mio nuovo amico lo sposta su un fianco e, come avevo fatto io per le chiavi, gli infila la mano in una delle tasche posteriore dei pantaloni. Recupera il portafogli dell’ubriaco e lo apre. Dentro, in uno degli scomparti, c’è la foto di una bella donna dagli occhi chiari e di due bambini biondi. Assomigliano alla madre.
«Se n’è andata e s’è portata via i figli… Ecco perché si riduce così» mi spiega il barista. «Si scopa la sua segretaria, la moglie l’ha scoperto e gli ha chiesto di smetterla, lui però non c’è riuscito… Una vita di successo andata a puttane.»

Guardo ancora il ritratto di quella donna dallo sguardo intelligente, ma un po’ triste. Il sorriso spensierato dei ragazzi. I tre sono stati ripresi dall’obiettivo della fotocamera immersi nel verde di un giardino lussureggiante. Che strano, penso: una stampa fotografica conservata nel portafogli. Non ce l’ha più nessuno. Le foto di famiglia, oggi, le affidiamo ai cellulari. Sono i custodi tecnologici dei nostri affetti.

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