Quando ho dato vita a questo blog in maniera un po' sprovveduta, mi ero illuso che nel giro di pochissimo sarei riuscito a coinvolgere molti collaboratori che, come me, condividesero la stessa passione per la scrittura e la lettura. Il blog lo curavo poco e non mi ero preoccupato di guardarmi attorno. Nell'autunno passato mi sono trovato davanti a un bivio: o chiudere il blog o implementarlo, magari cercando di capire meglio la rete. Ho scelto questa seconda strada e ne sono contento perché, nonostante ci siano blog letterari molto più curati de I MIEI RACCONTI IN RETE, inizio, come un paziente pescatore, a raggomitolare la rete e a trovarci dentro qualche prezioso pesciolino.
Giuseppe Novellino, ex insegnante e autore di diverse pubblicazioni, ha scelto proprio questo blog per offrire il suo contributo letterario. Lo ringrazio infinitamente.
Come prima opera di Giuseppe pubblicheremo un racconto intitolato "Marcia funebre". E' bellissimo. Quasi un classico della narrativa di genere. Un racconto in pieno stile lovercraftiano.
MARCIA FUNEBRE
di
Giuseppe Novellino
Sul foglietto pieghevole era riportato il
programma.
Nel primo tempo avrebbero eseguito la
Serenata per archi op. 22 di Anton
Dvorak e la Marcia Funebre opera postuma di Pier Germano Alodisio; nel secondo
tempo la sinfonia K 201 di Mozart e il concerto per pianoforte e orchestra n°4
op.110 di Johann Nepomuk Hummel. Malinconia evocatrice, delicata leggerezza,
chiaroscuri romantici e visioni d’oltretomba: il tutto affidato allo'rchestra
sinfonica “Gli Armonici”, diretta da Klaus Hoppinskj, e al pianista Goffredo
Terzigni.
– Stimolante – disse Laura, accomodandosi
sulla poltroncina di velluto rosso. – E poi dicono che il giovane Terzigni sia
un una forza della natura. Non l’ho mai ascoltato dal vivo.
– Eccoti accontentata – fece il marito.
La donna buttò indietro la stola di
castoro, fece una panoramica sulle teste davanti a lei e disse:
– Vedrai che saprà iniettare anche a te un
po’ di vitalità.
– Dubito.
Già, il maritone cucciolone non era tanto
portato per la musica classica. Lui ascoltava i Led Zeppelin e i Deep Purple.
Non si era nemmeno aggiornato nel campo del rock. Laura, musicofila e
dilettante flautista, era riuscita a portarlo ai concerti di tanto in tanto. Una
volta si era addormentato e le aveva fatto fare una brutta figura, ma stava
diventando un accompagnatore nel complesso decoroso. Chissà, forse sarebbe
riuscita ad aprire una breccia in quella sensibilità da cane San Bernardo.
– Oh, mia cara!
Laura si girò di scatto. La donna che
l’aveva chiamata stava ancora in piedi, tra le due file di poltrone.
– Ho riconosciuto il tuo castorino.
Lei glielo aveva prestato, una sera in cui
Enrica doveva andare a una festa di beneficenza.
– Sola?
– Ma quando mai! – fece la donna,
sedendosi con movenze di eleganza affettata. – Questa sera mi accompagna
Giorgio. Si è fermato a parlare con la moglie del sindaco.
Laura non poté fare a meno di pensare che
Giorgio, nonostante lo conoscesse appena, fosse un donnaiolo, degno compare di
quella irriducibile single, un po’ puttana.
– Dicono che il pezzo forte è l’opera di
Alodisio – fece notare Enrica, estraendo dalla borsetta il programma.
Laura tornò a girarsi e le sorrise. Quella
sua amica era una civetta inguaribile, ma si intendeva di musica. Non veniva ai
concerti solo per sfoggiare un bel vestito e l’uomo di turno.
Ma ecco Giorgio.
– Permesso… scusi… permesso.
Fece alzare quasi tutte le persone sedute
nella fila e andò ad accomodarsi accanto alla sua compagna.
Laura lo squadrò. Era molto più anziano di
Enrica, piuttosto rugoso, con un bel ciuffo di capelli grigi. Assomigliava
vagamente a Robert Redford.
– Ti presento Giorgio – disse Enrica solo
dopo un bel momento.
Lei gli dedicò un sorriso di circostanza.
– E questo è mio marito. – Questi si riscosse da una specie di torpore e si
voltò per salutare a sua volta la coppia.
Oltre ai soliti appassionati, in quel
concerto di apertura della stagione c’era la migliore società.
Laura sapeva che tutti aspettavano di
ascoltare, per la prima volta, la Marcia Funebre di Pier Germano Alodisio,
autore poco conosciuto. Lo aveva riscoperto il grande critico Nicola Porretta.
Una breve vita consumata nell’ombra, quasi esclusivamente trascorsa nell’isola
di Lipari. Il depliant presentava la sua opera come una partitura assai
originale, lontana da ogni stile novecentesco. Un pezzo di quindici minuti, per
pianoforte e orchestra, una specie di rapsodia che terminava con un tema di “solenne
e trionfale tristezza”, quello che dava appunto il titolo al brano.
Il vocìo della sala adesso si stava
intensificando. Già si udivano gli sporadici suoni degli archi che verificavano
l’accordatura.
– Quello che odio dei concerti è l’attesa
– sbuffò il marito di Laura.
– Qui almeno si sta tranquilli e composti,
tra bella gente, chiacchierando piacevolmente. – disse lei. – Non oso pensare
al frastuono e al casino di un concerto rock.
– Ben detto, cara! – fece l’amica seduta
nella fila di dietro. Si era sporta in avanti e alitava sulla nuca di Laura.
Entrò il direttore d’orchestra. I
musicisti si alzarono in piedi. Il pubblico applaudì.
Klaus Hoppinskj non aveva l’aspetto
classico dei suoi colleghi. Lo smoking che indossava cadeva male sulla sua
figura tarchiata. La testa rasata.
Il marito di Laura commentò:
– Sembra un salumiere.
– L’aspetto non fa il monaco. – disse
Laura. – Hoppinskj è comunque un artista molto apprezzato, secondo a nessuno.
– Sarà… – borbottò l’uomo, liberando uno
sbadiglio da ippopotamo.
Attaccarono la Serenata per archi di
Dvorak. Tutti vennero rapiti da quelle armonie e alla fine Laura fu tra i primi
a battere le mani.
– Bellissima esecuzione! – gridò al colmo
dell’entusiasmo.
– Questa musica è deliziosa. – fece eco
Enrica, alle sue spalle.
– Il maestro Hoppinskj è all’altezza della
sua fama, – commentò Giorgio.
Laura diede una gomitata al marito. – E
tu, che ne pensi?
Non rispose. Solo dopo un momento chiese:
– Hai notato quella strana, sottilissima nebbiolina che avvolgeva gli
orchestrali, durante l’ultimo movimento?
– No – rispose Laura.
– Eppure…
– Non dire scemenze.
– Non vorrei che ci fosse stata qualche
combustione, che so, un filo bruciato sotto le sedie dei musicisti, in qualche
angolo del golfo mistico. Sai, nei teatri può capitare.
Laura lo fulminò con un’occhiata. – Ma che
stai a dire?
Già, il suo maritone cucciolone, invece di
ascoltare la musica, verificava l’atmosfera circostante, inseguiva nebbioline
inesistenti. – Sai che ti dico? Era lo spirito di Anton Dvorak, che aleggiava
sugli orchestrali per ispirarli. E tu, invece di cogliere il suo effetto, vai
in cerca del suo ectoplasma.
Entrò il pianista Goffredo Terzigni. Sì,
questo era il prototipo del virtuoso della tastiera. Allampanato, con un mento
affilato e una chioma folta, divisa nel mezzo. Doveva avere due mani
lunghissime, come quelle dell’ombra di Nosferatu. Fece un inchino e poi si
sedette sullo sgabello.
Applausi.
Seguì un prolungato silenzio. Nella sala
non si sentiva volare una mosca.
Il direttore, rigido e immobile, volgeva
le spalle al pubblico. Quindi batté tre volte con la bacchetta sul leggio.
– Hai visto? – Sussultò il marito di
Laura.
– Ssss… – fece lei. – Visto cosa?
– Non è possibile. Eppure…
La musica stava per cominciare e lui aveva
le visioni. Laura gli lanciò uno sguardo contrariato.
– Il pianista – disse lui – ha alzato il
medio verso di noi, verso il pubblico.
– Silenzio! – intimò qualcuno al lato
dell’uomo. Un'altra donna si girò e lo fulminò con un’occhiataccia.
Accordi di pianoforte, lenti e dissonanti.
Poi un primo contrappunto degli archi e dei legni.
Una strana melodia si diffuse nel teatro.
Laura si sentiva catturata da quella musica
che sapeva di antico, pur basata su armonie e ritmi di carattere decisamente
moderni.
Dopo un paio di minuti si accorse che il
marito era inquieto.
– Si può sapere che hai?
– Mi sembra di avere le traveggole.
– Quelle ce le hai sempre, tranne quando
mi accompagni ai concerti. Mi sembra strano che non ti sia ancora addormentato.
Capitava spesso. Una volta aveva messo
Laura in forte imbarazzo perché lui aveva quasi iniziato a russare. In quella
occasione stavano eseguendo la terza sinfonia di Gustav Malher.
– Quei due che suonano il fagotto, non li
hai visti?
– Ce li ho davanti. Perché?
– Silenzio! – Venne dalla fila anteriore.
– Scusi, mio marito non si sente tanto
bene – si giustificò lei.
– Hanno alzato il loro strumento –
sussurrò il marito, – come se volessero scagliarlo in platea.
Laura scosse il capo.
Poi cominciò a vedere qualcosa anche lei.
La musica, in quel momento, era affidata
al pianoforte. Arabescava inseguendo un tema che non riusciva a sfociare.
Il secondo violino si era alzato in piedi.
Girò la schiena verso il pubblico, si
slacciò i pantaloni e mostrò due bianche natiche flaccide.
Adesso un brusio si levò nella sala.
– Cazzo, lo vedi o no? – disse il marito,
a voce alta.
Era
incredibile. E ancora di più lo era il fatto che l’orchestra continuava nella
sua esecuzione, sotto la guida di un direttore particolarmente ispirato.
– Forse c’entra con la partitura – disse Giorgio, il compagno di Enrica. –
Delle volte queste opere moderne…
– Permesso… permesso. – fece una donna in
decolté, a fianco di Laura.
Dovettero alzarsi per lasciarla passare.
– Questo non è un concerto, è un’indecenza!
– diceva la signora, facendosi strada per andarsene.
Fu allora che i musicisti attaccarono il
tema finale della marcia funebre.
Una sottile nebbia grigia li avvolse, ma
non impedì che le loro figure risaltassero sotto le luci di scena.
Goffredo Terzigni pestava sulla tastiera,
producendo suoni che un comune pianoforte non poteva produrre. Ogni tanto
voltava lo sguardo verso il pubblico, mostrando zanne affilate, grondanti
sangue. Un suonatore di oboe aveva scagliato in aria il suo strumento e ora
stava azzannando un avambraccio nudo, tagliato appena sopra il gomito, che
aveva materializzato da chissà dove. I violinisti producevano strani bagliori
con i loro archetti. Due suonatori di clarinetto lanciavano grida orrende
durante le pause. Il timpanista si percuoteva la sua stessa testa, facendo
uscire sangue dalle orecchie. Il primo violoncellista cominciò ad prendere a
calci il collega seduto al suo fianco.
La sala rumoreggiava più che mai, ma non
riusciva a coprire il crescendo della musica.
Molti si alzarono e cercarono di guadagnare
l’uscita. Altri imprecarono. Qualcuno chiedeva aiuto.
Laura continuava a stare seduta,
insensibile all’invito del marito che le stava dicendo di andarsene. Era come
ipnotizzata. Non credeva a quello che sentiva e vedeva.
Poi vennero gli accordi finali. Una
disarmonia addirittura sublime, un contrasto tra pianoforte e orchestra come
Laura non aveva mai sentito.
Il direttore Kaus Hoppinskj si girò verso
il pubblico, fece un inchino teatrale, spezzò la bacchetta e si lanciò su un
ascoltatore della prima fila, azzannandolo alla carotide.
Laura a questo punto pensò di essere scivolata
fuori dalla realtà.
– Vieni! – gridò il marito, afferrandola
per un braccio. – Cerchiamo di uscire.
Ma quella sembrava un’impresa davvero
difficile. Nel fuggifuggi qualcuno si era messo a gridare che le porte erano
sbarrate.
Laura vide cadere Enrica e Giorgio lungo
il corridoio fra le due file di poltrone, e venire calpestati. La calca era
opprimente: grida, lamenti e rumori da tutte le parti.
Mentre cercava di farsi largo con il suo
uomo, Laura notò che le sedie degli orchestrali erano quasi tutte vuote. I loro
occupanti avevano seguito il direttore e si erano sparpagliati tra la folla
urlante degli ascoltatori.
Un uomo gli finì addosso e le fece perdere
la presa alla mano di suo marito, che finì inghiottito dalla folla. Sbatté
contro altra gente, poi finì addosso a un uomo in smoking che cercò di
afferrarla. Laura ebbe l’impressione si trattasse del contrabbassista, ma
quando lo guardò si trovò davanti una faccia deformata dalla rabbia, gli occhi
iniettati di sangue, la bocca spalancata, irta di denti acuminati, da cui
colava bava verde.
Un botto assordante, fiamme e tanto fumo.
Poi più nulla.
* * *
L’incendio del Teatro Vaudetti è stato una
catastrofe.
Duecentosette morti: bruciati vivi,
asfissiati, calpestati. Ma se ne sono trovati alcuni anche orribilmente
mutilati. La testa del sindaco, appena riconoscibile a cause delle bruciature,
è stata rinvenuta molto lontano dal resto del corpo. Il cranio appariva rosicchiato, come se un animale l’avesse addentata.
Quello che è accaduto rimane avvolto nel
mistero. Un incendio e un’esplosione sono stati le cause probabili della
tragica distruzione. Ma non si hanno ancora dati certi.
Ci sono le testimonianze dei pochi
sopravvissuti, esclusivamente appartenenti al pubblico e al personale del
teatro, alcuni dei quali sono rimasti invalidi. Ma nessuno osa credere a quello
che hanno riferito.
Lo psicologo Kevin Samasota, esperto in
traumi, sostiene che la spaventosità dell’incendio abbia sconvolto in modo
irreparabile le menti dei disgraziati scampati alla furia del fuoco.
Rimane una curiosità.
Tutto era cominciato durante l’esecuzione
della Marcia Funebre per pianoforte e orchestra di Pier Germano Alodisio: una
strana opera, mai eseguita fino a quel momento, prodotta da uno dei compositori
più appartati del nostro panorama musicale.
Forza non arrenderti. Nel mondo devono prevalere le persone positive come te.
RispondiEliminaIo purtroppo non posso fare di più di più.
Grazie per l'incoraggiamento...
EliminaIl web è un po' come la vita: va ad alti e bassi. Ci sono tempi in cui tutto ristagna e altri in cui si percepisce un certo movimento.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino