sabato 9 gennaio 2016

Marcia Funebre di Giuseppe Novellino

Quando ho dato vita a questo blog in maniera un po' sprovveduta, mi ero illuso che nel giro di pochissimo sarei riuscito a coinvolgere molti collaboratori che, come me, condividesero la stessa passione per la scrittura e la lettura. Il blog lo curavo poco e non mi ero preoccupato di guardarmi attorno. Nell'autunno passato mi sono trovato davanti a un bivio: o chiudere il blog o implementarlo, magari cercando di capire meglio la rete. Ho scelto questa seconda strada e ne sono contento perché, nonostante ci siano blog letterari molto più curati de I MIEI RACCONTI IN RETE, inizio, come un paziente pescatore, a raggomitolare la rete e a trovarci dentro qualche prezioso pesciolino. 
Giuseppe Novellino, ex insegnante e autore di diverse pubblicazioni, ha scelto proprio questo blog per offrire il suo contributo letterario. Lo ringrazio infinitamente. 
Come prima opera di Giuseppe pubblicheremo un racconto intitolato "Marcia funebre". E' bellissimo. Quasi un classico della narrativa di genere. Un racconto in pieno stile lovercraftiano. 

     
MARCIA FUNEBRE
di 
Giuseppe Novellino

Sul foglietto pieghevole era riportato il programma.
     Nel primo tempo avrebbero eseguito la Serenata per archi  op. 22 di Anton Dvorak e la Marcia Funebre opera postuma di Pier Germano Alodisio; nel secondo tempo la sinfonia K 201 di Mozart e il concerto per pianoforte e orchestra n°4 op.110 di Johann Nepomuk Hummel. Malinconia evocatrice, delicata leggerezza, chiaroscuri romantici e visioni d’oltretomba: il tutto affidato allo'rchestra sinfonica “Gli Armonici”, diretta da Klaus Hoppinskj, e al pianista Goffredo Terzigni.

     – Stimolante – disse Laura, accomodandosi sulla poltroncina di velluto rosso. – E poi dicono che il giovane Terzigni sia un una forza della natura. Non l’ho mai ascoltato dal vivo.
     – Eccoti accontentata – fece il marito.
     La donna buttò indietro la stola di castoro, fece una panoramica sulle teste davanti a lei e disse:
     – Vedrai che saprà iniettare anche a te un po’ di vitalità.
     – Dubito.
     Già, il maritone cucciolone non era tanto portato per la musica classica. Lui ascoltava i Led Zeppelin e i Deep Purple. Non si era nemmeno aggiornato nel campo del rock. Laura, musicofila e dilettante flautista, era riuscita a portarlo ai concerti di tanto in tanto. Una volta si era addormentato e le aveva fatto fare una brutta figura, ma stava diventando un accompagnatore nel complesso decoroso. Chissà, forse sarebbe riuscita ad aprire una breccia in quella sensibilità da cane San Bernardo.
     – Oh, mia cara!
     Laura si girò di scatto. La donna che l’aveva chiamata stava ancora in piedi, tra le due file di poltrone.
     – Ho riconosciuto il tuo castorino.
     Lei glielo aveva prestato, una sera in cui Enrica doveva andare a una festa di beneficenza.
     – Sola?
     – Ma quando mai! – fece la donna, sedendosi con movenze di eleganza affettata. – Questa sera mi accompagna Giorgio. Si è fermato a parlare con la moglie del sindaco.
     Laura non poté fare a meno di pensare che Giorgio, nonostante lo conoscesse appena, fosse un donnaiolo, degno compare di quella irriducibile single, un po’ puttana.
     – Dicono che il pezzo forte è l’opera di Alodisio – fece notare Enrica, estraendo dalla borsetta il programma.
     Laura tornò a girarsi e le sorrise. Quella sua amica era una civetta inguaribile, ma si intendeva di musica. Non veniva ai concerti solo per sfoggiare un bel vestito e l’uomo di turno.
     Ma ecco Giorgio.
     – Permesso… scusi… permesso.
     Fece alzare quasi tutte le persone sedute nella fila e andò ad accomodarsi accanto alla sua compagna.
     Laura lo squadrò. Era molto più anziano di Enrica, piuttosto rugoso, con un bel ciuffo di capelli grigi. Assomigliava vagamente a Robert Redford.
     – Ti presento Giorgio – disse Enrica solo dopo un bel momento.
     Lei gli dedicò un sorriso di circostanza. – E questo è mio marito. – Questi si riscosse da una specie di torpore e si voltò per salutare a sua volta la coppia.
     Oltre ai soliti appassionati, in quel concerto di apertura della stagione c’era la migliore società.
     Laura sapeva che tutti aspettavano di ascoltare, per la prima volta, la Marcia Funebre di Pier Germano Alodisio, autore poco conosciuto. Lo aveva riscoperto il grande critico Nicola Porretta. Una breve vita consumata nell’ombra, quasi esclusivamente trascorsa nell’isola di Lipari. Il depliant presentava la sua opera come una partitura assai originale, lontana da ogni stile novecentesco. Un pezzo di quindici minuti, per pianoforte e orchestra, una specie di rapsodia che terminava con un tema di “solenne e trionfale tristezza”, quello che dava appunto il titolo al brano.
     Il vocìo della sala adesso si stava intensificando. Già si udivano gli sporadici suoni degli archi che verificavano l’accordatura.
     – Quello che odio dei concerti è l’attesa – sbuffò il marito di Laura.
     – Qui almeno si sta tranquilli e composti, tra bella gente, chiacchierando piacevolmente. – disse lei. – Non oso pensare al frastuono e al casino di un concerto rock.
     – Ben detto, cara! – fece l’amica seduta nella fila di dietro. Si era sporta in avanti e alitava sulla nuca di Laura.
     Entrò il direttore d’orchestra. I musicisti si alzarono in piedi. Il pubblico applaudì.
     Klaus Hoppinskj non aveva l’aspetto classico dei suoi colleghi. Lo smoking che indossava cadeva male sulla sua figura tarchiata. La testa rasata.
     Il marito di Laura commentò:
     – Sembra un salumiere.
     – L’aspetto non fa il monaco. – disse Laura. – Hoppinskj è comunque un artista molto apprezzato, secondo a nessuno.
     – Sarà… – borbottò l’uomo, liberando uno sbadiglio da ippopotamo.
     Attaccarono la Serenata per archi di Dvorak. Tutti vennero rapiti da quelle armonie e alla fine Laura fu tra i primi a battere le mani.
     – Bellissima esecuzione! – gridò al colmo dell’entusiasmo.
     – Questa musica è deliziosa. – fece eco Enrica, alle sue spalle.
     – Il maestro Hoppinskj è all’altezza della sua fama, – commentò Giorgio.
     Laura diede una gomitata al marito. – E tu, che ne pensi?
     Non rispose. Solo dopo un momento chiese: – Hai notato quella strana, sottilissima nebbiolina che avvolgeva gli orchestrali, durante l’ultimo movimento?
     – No – rispose Laura.
     – Eppure…
     – Non dire scemenze.
     – Non vorrei che ci fosse stata qualche combustione, che so, un filo bruciato sotto le sedie dei musicisti, in qualche angolo del golfo mistico. Sai, nei teatri può capitare.
     Laura lo fulminò con un’occhiata. – Ma che stai a dire?
     Già, il suo maritone cucciolone, invece di ascoltare la musica, verificava l’atmosfera circostante, inseguiva nebbioline inesistenti. – Sai che ti dico? Era lo spirito di Anton Dvorak, che aleggiava sugli orchestrali per ispirarli. E tu, invece di cogliere il suo effetto, vai in cerca del suo ectoplasma.
     Entrò il pianista Goffredo Terzigni. Sì, questo era il prototipo del virtuoso della tastiera. Allampanato, con un mento affilato e una chioma folta, divisa nel mezzo. Doveva avere due mani lunghissime, come quelle dell’ombra di Nosferatu. Fece un inchino e poi si sedette sullo sgabello.
     Applausi.
     Seguì un prolungato silenzio. Nella sala non si sentiva volare una mosca.
     Il direttore, rigido e immobile, volgeva le spalle al pubblico. Quindi batté tre volte con la bacchetta sul leggio.
     – Hai visto? – Sussultò il marito di Laura.
     – Ssss… – fece lei. – Visto cosa?
     – Non è possibile. Eppure…
     La musica stava per cominciare e lui aveva le visioni. Laura gli lanciò uno sguardo contrariato.
     – Il pianista – disse lui – ha alzato il medio verso di noi, verso il pubblico.
    – Silenzio! – intimò qualcuno al lato dell’uomo. Un'altra donna si girò e lo fulminò con un’occhiataccia.
    Accordi di pianoforte, lenti e dissonanti. Poi un primo contrappunto degli archi e dei legni.
    Una strana melodia si diffuse nel teatro.
    Laura si sentiva catturata da quella musica che sapeva di antico, pur basata su armonie e ritmi di carattere decisamente moderni.
     Dopo un paio di minuti si accorse che il marito era inquieto.
     – Si può sapere che hai?
     – Mi sembra di avere le traveggole.
     – Quelle ce le hai sempre, tranne quando mi accompagni ai concerti. Mi sembra strano che non ti sia ancora addormentato.
     Capitava spesso. Una volta aveva messo Laura in forte imbarazzo perché lui aveva quasi iniziato a russare. In quella occasione stavano eseguendo la terza sinfonia di Gustav Malher.
     – Quei due che suonano il fagotto, non li hai visti?
     – Ce li ho davanti. Perché?
     – Silenzio! – Venne dalla fila anteriore.
     – Scusi, mio marito non si sente tanto bene – si giustificò lei.
     – Hanno alzato il loro strumento – sussurrò il marito, – come se volessero scagliarlo in platea.
     Laura scosse il capo.
     Poi cominciò a vedere qualcosa anche lei.
     La musica, in quel momento, era affidata al pianoforte. Arabescava inseguendo un tema che non riusciva a sfociare.
     Il secondo violino si era alzato in piedi.
     Girò la schiena verso il pubblico, si slacciò i pantaloni e mostrò due bianche natiche flaccide.
     Adesso un brusio si levò nella sala.
     – Cazzo, lo vedi o no? – disse il marito, a voce alta.
     Era incredibile. E ancora di più lo era il fatto che l’orchestra continuava nella sua esecuzione, sotto la guida di un direttore particolarmente ispirato.
    – Forse c’entra con la partitura  – disse Giorgio, il compagno di Enrica. – Delle volte queste opere moderne…
    – Permesso… permesso. – fece una donna in decolté, a fianco di Laura.
    Dovettero alzarsi per lasciarla passare.
    – Questo non è un concerto, è un’indecenza! – diceva la signora, facendosi strada per andarsene.
    Fu allora che i musicisti attaccarono il tema finale della marcia funebre.
    Una sottile nebbia grigia li avvolse, ma non impedì che le loro figure risaltassero sotto le luci di scena.
    Goffredo Terzigni pestava sulla tastiera, producendo suoni che un comune pianoforte non poteva produrre. Ogni tanto voltava lo sguardo verso il pubblico, mostrando zanne affilate, grondanti sangue. Un suonatore di oboe aveva scagliato in aria il suo strumento e ora stava azzannando un avambraccio nudo, tagliato appena sopra il gomito, che aveva materializzato da chissà dove. I violinisti producevano strani bagliori con i loro archetti. Due suonatori di clarinetto lanciavano grida orrende durante le pause. Il timpanista si percuoteva la sua stessa testa, facendo uscire sangue dalle orecchie. Il primo violoncellista cominciò ad prendere a calci il collega seduto al suo fianco.
    La sala rumoreggiava più che mai, ma non riusciva a coprire il crescendo della musica.
    Molti si alzarono e cercarono di guadagnare l’uscita. Altri imprecarono. Qualcuno chiedeva aiuto.
    Laura continuava a stare seduta, insensibile all’invito del marito che le stava dicendo di andarsene. Era come ipnotizzata. Non credeva a quello che sentiva e vedeva.
    Poi vennero gli accordi finali. Una disarmonia addirittura sublime, un contrasto tra pianoforte e orchestra come Laura non aveva mai sentito.
     Il direttore Kaus Hoppinskj si girò verso il pubblico, fece un inchino teatrale, spezzò la bacchetta e si lanciò su un ascoltatore della prima fila, azzannandolo alla carotide.
     Laura a questo punto pensò di essere scivolata fuori dalla realtà.
     – Vieni! – gridò il marito, afferrandola per un braccio. – Cerchiamo di uscire.
     Ma quella sembrava un’impresa davvero difficile. Nel fuggifuggi qualcuno si era messo a gridare che le porte erano sbarrate.
     Laura vide cadere Enrica e Giorgio lungo il corridoio fra le due file di poltrone, e venire calpestati. La calca era opprimente: grida, lamenti e rumori da tutte le parti.
     Mentre cercava di farsi largo con il suo uomo, Laura notò che le sedie degli orchestrali erano quasi tutte vuote. I loro occupanti avevano seguito il direttore e si erano sparpagliati tra la folla urlante degli ascoltatori.
     Un uomo gli finì addosso e le fece perdere la presa alla mano di suo marito, che finì inghiottito dalla folla. Sbatté contro altra gente, poi finì addosso a un uomo in smoking che cercò di afferrarla. Laura ebbe l’impressione si trattasse del contrabbassista, ma quando lo guardò si trovò davanti una faccia deformata dalla rabbia, gli occhi iniettati di sangue, la bocca spalancata, irta di denti acuminati, da cui colava bava verde.
     Un botto assordante, fiamme e tanto fumo.
     Poi più nulla.

* * *

     L’incendio del Teatro Vaudetti è stato una catastrofe.
     Duecentosette morti: bruciati vivi, asfissiati, calpestati. Ma se ne sono trovati alcuni anche orribilmente mutilati. La testa del sindaco, appena riconoscibile a cause delle bruciature, è stata rinvenuta molto lontano dal resto del corpo. Il cranio appariva  rosicchiato, come se un animale l’avesse addentata.
     Quello che è accaduto rimane avvolto nel mistero. Un incendio e un’esplosione sono stati le cause probabili della tragica distruzione. Ma non si hanno ancora dati certi.
     Ci sono le testimonianze dei pochi sopravvissuti, esclusivamente appartenenti al pubblico e al personale del teatro, alcuni dei quali sono rimasti invalidi. Ma nessuno osa credere a quello che hanno riferito.
     Lo psicologo Kevin Samasota, esperto in traumi, sostiene che la spaventosità dell’incendio abbia sconvolto in modo irreparabile le menti dei disgraziati scampati alla furia del fuoco.
     Rimane una curiosità.
     Tutto era cominciato durante l’esecuzione della Marcia Funebre per pianoforte e orchestra di Pier Germano Alodisio: una strana opera, mai eseguita fino a quel momento, prodotta da uno dei compositori più appartati del nostro panorama musicale.
    
    
    

    





3 commenti:

  1. Forza non arrenderti. Nel mondo devono prevalere le persone positive come te.
    Io purtroppo non posso fare di più di più.

    RispondiElimina
  2. Il web è un po' come la vita: va ad alti e bassi. Ci sono tempi in cui tutto ristagna e altri in cui si percepisce un certo movimento.

    Giuseppe Novellino

    RispondiElimina