È stata una
notte di merda. Quasi non ho chiuso occhio. Sarà stata la focaccia farcita della sera prima,
ripiena di mozzarella e prosciutto, che mi procura sempre una
sete da disperso nel deserto. O la giornata, un po’ così, che ho passato nella
speranza che accadesse qualcosa che non è accaduto. Mi sono
coricato nel letto alla una e trentacinque minuti, ho preso sonno quasi subito,
solo il tempo di fare il segno della Croce. Non che sia un credente praticante,
ma se non mi segno e blatero una specie di preghiera, ogni volta che mi sdraio,
mi è impossibile chiudere gli occhi. Io la chiamo la sindrome del commesso.
Immaginatevi il commesso di un negozio che, giunto alla fine dell’orario di
lavoro, se ne va a casa senza chiudere la cassa. Per me è un po’ così. Negli
anni è diventato un rituale che mi è rimasto appiccicato addosso dall’infanzia.
Retaggio di un’educazione cattolica convenzionale. In realtà, quando ero molto
piccolo, e mio padre era via quasi tutta la settimana per lavoro e abitavamo in
una casa che era una scatola di sardine, mia madre mi metteva a dormire nel
letto con lei e mi raccontava sempre qualcosa su Gesù che si chiudeva poi con
una preghiera. Quando nacque mio fratello, e prima che cambiassimo casa,
metteva nel lettone anche lui. Il Gesù che raccontava mia madre era diverso da
quello che raccontavano le suore e i preti all’asilo. O almeno a me sembrava
diverso, era il personaggio buono di una storia, un po’ più di Pinocchio e un
po’ meno di Superman.
Mia madre non
era una donna particolarmente religiosa, mio padre neppure e io sono cresciuto
come loro. Da bambino però mi costringevano ad andare a messa, che ogni tanto
bidonavo per correre a vedere la partita di calcio dei ragazzi più grandi di me
al campetto dell’oratorio lì vicino. Ho frequentato anche il catechismo e ho
fatto la comunione e la cresima e molti anni dopo mi sono anche sposato in
chiesa.
Intorno ai
sette o otto anni ho avuto una crisi mistica. I miei, un’estate, su consiglio
del medico, mi avevano spedito in una colonia
in Liguria, a San Remo. Colonia fra l’altro gestita da suore. Io non ci volevo
stare, prima che spegnessero le luci degli enormi cameroni e ci minacciassero
di metterci a dormire, pensavo a casa e mi veniva sempre il magone. Sentivo
qualche altro bambino singhiozzare, forse anch’io ho versato qualche lacrima,
ma non me lo ricordo più. Ad ogni modo, fu in quella colonia che decisi di fare
come Gesù e di aiutare gli altri. Un giorno mi convinsi che un bambino stava
per affogare in mare, io mi tuffai con il salvagente di Goldrake e tentati di
salvarlo, ma lui, colpito dalla mia generosità, quasi mi strappò un occhio e mi
bucò il salvagente con un’unghiata.
Volevo essere
buono come Gesù, ma non volevo fare il prete e pregavo affinché non mi
arrivasse nessuna chiamata diretta da Dio. Il vecchio parroco, che a scuola
veniva a insegnarci religione, ci diceva sempre che Dio, se avesse voluto, ci
avrebbe premiato col dono della vocazione. Nel mio immaginario la vocazione era
una specie di chiamata interurbana che mi avrebbe svegliato nel cuore della
notte, magari squarciando il soffitto, vomitandomi addosso una luce accecante, nella quale la voce potente di Dio mi avrebbe detto,
a chiare lettere e senza possibilità di contrattazione, che avrei dovuto
dedicare la mia vita a lui. Per me era un’ansia.
Pregavo e
dicevo: «Gesù, Dio… Voglio essere buono, ma ti prego… Ti prego, non chiedermi
di diventare prete». Per una volta fui ascoltato.
Intorno ai
diciotto anni dissi a mia madre che forse ero ateo o agnostico: «Forse più
agnostico che ateo…» le dissi, come se la cosa non avesse alcuna importanza. Lei
quasi si mise a piangere, mio padre, quando lo seppe, si sfilò la cintura dei
pantaloni e mi minacciò di darmele come quando mi minacciava da piccolo se ne
combinavo qualcuna.
Quando tre
anni fa è morta mia madre, mi sono chiesto se lei, durante l’anno di terapie,
credesse ancora in Dio. E se ci credeva chissà cosa gli chiedeva la notte in
ospedale. Cosa chiedeva a Dio quando il buio e la paura le penetravano l’anima
fino al midollo, mentre i neon pallidi e tremolanti del reparto di oncologia
mandavano flebili segnali, quando le luci di una città si accendevano negli
appartamenti e nelle strade ancora leggermente trafficate e lei poteva vedere
questo sfolgorio sbiadito solo dal riquadro di una fredda finestra? Non lo
saprò mai.
E comunque
questa notte è stata di merda. Alle cinque e mezza ho aperto gli occhi mi sono
girato cento volte sotto le coperte. Sentivo mia moglie respirare male a causa
del raffreddore, mia figlia, nella culla accanto al nostro letto, dormiva anche
lei un sonno un po’ agitato e ogni tanto chiamava Dart Fener. Al momento, colpa
del fratello, è presa male con Star Wars.
Mio figlio maggiore, invece, dormiva il sonno dei giusti: dei giusti e dei
pigroni. Il sabato non ha scuola e prima delle nove e mezza o dieci non si
sarebbe mai alzato. Io, invece, ho atteso ancora un po’. Poi quando i numeri
rossi della radiosveglia digitale hanno segnato le sei in punto, mi sono alzato
e sono andato in salotto. Ho preso il libro che sto leggendo e ho provato a
mettermi sul divano. In quel momento è arrivata mia moglie e mi ha detto che
doveva far cambiare l’aria ai locali della zona giorno del nostro appartamento,
ho chiesto se poteva farlo dopo. Ha detto: «No! Non posso farlo dopo. Dopo si
svegliano i bambini». Poi è tornata a letto ed io, dato che è gennaio, sono
andato nello studio dove ho aperto il computer e ho iniziato a scrivere...
ottimo racconto, buon ritmo
RispondiEliminaUn bel racconto, scritto bene dove non succede nulla e nello stesso tempo succede tutto... quello che potrebbe succedere nella mente di un insonne.
RispondiEliminaInteressante il tema religioso che fa da collante a tutto il discorso. Mi è piaciuto.
Giuseppe Novellino