domenica 16 febbraio 2014

EXTRA un racconto di Michele Amedeo



Osservo il vecchio. Ha le palpebre chiuse. L’espressione è rilassata, ma non è sufficiente a distendere le profonde rughe che solcano il viso. Gli angoli della bocca sono grinzosi, le guance incavate, gli zigomi sporgenti. Tutto mostra I segni inesorabili del tempo, le labbra accennano un lieve sorriso di soddisfazione, di pace con se stessi. Il collo è singolare, si presenta liscio, non intaccato dall’età, come se non appartenesse a quel corpo, ma fosse stato aggiunto successivamente, a sostituire un pezzo difettoso.


L’impressione generale è di una serena determinazione. Deve essere un vecchio che ha navigato nei flutti tempestosi della vita senza mai perdere la rotta né la fiducia nella propria nave, anche quando l’abisso si avvicinava e la disperazione rischiava di sommergerlo. Probabilmente ha un carattere orgoglioso, incapace di chiedere aiuto e desideroso di ricevere le ferite che gli spettano, senza cercare di schivarle o peggio di usare altri come scudo. Al momento sembra trovarsi in un porto sicuro, da cui può spiare gli affanni della vita senza giudicare o intervenire.

A parte il volto, non vedo altro, una pesante coperta di lana grezza mi nasconde il resto del corpo.

Vorrei saperne di più di questo vecchio, vorrei avvicinarmi e carpire altri dettagli, vorrei soprattutto svegliarlo e parlare con lui, ma non riesco a muovermi. Non capisco perché.

Sono sdraiato, ma non sono nel mio letto. Il mio letto è soffice, accogliente, mentre questa superficie è dura, metallica. Sono morto? Non è possibile. Sento il freddo, vedo il vecchio. I miei sensi funzionano. Sento anche dei rumori. Bip e ronzii. E voci, lontane, ovattate. Non capisco le parole, ma avverto un senso di urgenza. Apro la bocca per gridare, ma ho le labbra incollate. Provo a muovere le braccia, le gambe, ma sento una pesantezza infinita che mi inchioda alla superficie. Mi volto. Il vecchio è ancora lì, imperturbabile. Chiudo di scatto gli occhi e vedo un punto luminoso al centro della testa. Cammino con la mente, mi sforzo di raggiungere la luce, forse oltre essa c’è  qualcuno che può aiutarmi, dirmi cosa mi sta accadendo. Il punto si ingrandisce, la luce diventa fastidiosa, ma ho già chiuso gli occhi, non posso fare altro. Ho paura, vorrei tornare indietro. Forse è una luce cattiva, forse è peggio della fredda immobilità in cui mi trovavo prima. Lotto. Una parte della mia mente mi tira indietro, un’altra vuole la luce. Il punto scompare. Ora sono nella luce. Sento che il corpo diventa leggero, sono fatto di aria. Le palpebre si alzano. In basso vedo un corpo steso su un tavolo metallico da cui escono tubicini collegati a machine e monitor. Persone indaffarate. Camici bianchi e verdi. Poi il silenzio, l’immobilità, teste che si scuotono e braccia che ricadono lungo fianchi. Un lungo bip senza fine. La luce che si spegne. Smarrito, chiudo e riapro gli occhi. La stanza è in penombra. Il vecchio è sempre disteso al suo posto. Mi abbasso un poco, vedo I piedi incartapecoriti spuntare dal fondo della coperta. Vedo il cartoncino legato all’alluce. C’è scritto il mio nome sopra. Ricado lievemente dentro il mio corpo. Le mie labbra grinzose sono ancora distese in un sorriso di soddisfazione.

1 commento:

  1. Il racconto ha le caratteristiche di un incubo, ma la dimensione onirica prende forma a poco a poco, fino alla rivelazione finale. Bello.

    Giuseppe Novellino

    RispondiElimina