venerdì 14 marzo 2014

TU MI UCCIDERAI un racconto di Michele Amedeo




Tu mi ucciderai. È scritto su questo pavimento di nuda terra, su queste assi scheggiate dai cui interstizi filtrano i raggi di un sole morente. È scritto nelle stelle. Doveva andare così l’ho capito fin dal primo istante in cui ti ho visto. Accosto l’occhio a una fessura e scruto la boscaglia che circonda il mio ultimo rifugio. Un angosciante muro verde. Resto fermo per alcuni minuti. Niente sembra turbare l’immobilità di quel mondo selvaggio.
Mi volto e con passi inquieti misuro per la centesima volta l’ampiezza del capanno, poi siedo schiena contro la parete e tocco le armi posate di fianco a me. Non ne ottengo alcun conforto, so che non mi serviranno. Non contro di te. Inutili pezzi di ferro che non mi proteggeranno. Io % io facevo altro nella vita. Come sono finito qui ? Dove era il mio cervello quando ho assecondato la follia di mia moglie ? Lei diceva: “abbiamo tre bambini, ho perso il lavoro, il tuo stipendio da agente di borsa non ci basta, devo fare i salti mortali ogni mese, I miei non possono più aiutarci%” Basta! Ne avevo le palle piene di sentire quella solfa e alla fine ho ceduto, ho ceduto per sfinimento, perché avevo capito che ormai mi disprezzava, mi considerava un vigliacco, un inetto.
Come ho potuto ? Come ho potuto dirle di sì? Lei il suo tornaconto lo avrà comunque. Un milione di euro per il vincitore, per il sopravvissuto, centomila euro alle famiglie di chi non torna: le regole di questo incredibile gioco. Sì, perché alla fine è solo un gioco, un assurdo, disumano, mortale gioco, creato per l’adrenalina di milioni di spettatori, ormai assuefatti a tutto e estremamente bisognosi di nuove ondate di pura e originale violenza.
Ho comperato una pistola e ho cominciato ad andare tutte le sere al poligono, dopo il lavoro. Mia moglie mi guardava con occhi diversi. La sua ammirazione mi faceva orrore.
Quando impugnavo il freddo metallo della pistola provavo ribrezzo, schifo di me stesso, ma mettevo la cuffia e iniziavo a sparare. Sparavo alle sagome e mi chiedevo come sarebbe stato sparare a esseri umani, sentirli gridare, vedere che si accartocciavano su stessi mentre il sangue usciva dal loro corpo. Dopo alcuni giorni non potevo più fare a meno della pistola. Se non riuscivo a passare dal poligono perché facevo tardi al lavoro, mi sentivo incompleto, ero nervoso, insoddisfatto, irascibile. Tornavo a casa, mangiavo senza appetito, non parlavo con mia moglie e ignoravo I bambini che mi davano la buonanotte. Un giorno mi dissero che ero diventato bravo a sparare. Mi sentivo pronto.
Feci domanda per partecipare al programma. Un mese dopo arrivò la lettera. Mia moglie la aprì con mani tremanti. Ti hanno preso! Gridava e saltava come una bambina a cui hanno appena regalato la bambola dei sogni. Ti hanno preso! Ti hanno preso! Le fecero eco I bambini senza capire. Non dissi niente.
Una settimana dopo ero nella foresta con gli altri. Ci guardavamo per l’ultima volta da persone civili. Con le tute mimetiche, i fucili, le pistole, le cartucciere, I coltelli infilati nelle cinture sembravamo tanti Rambo decerebrati. Il cameraman carrellava I nostri volti inespressivi mentre il conduttore-imbonitore sciorinava la regole a uso e consumo dei telespettatori famelici e poi lanciava l’ultimo blocco di pubblicità prima di dare inizio allo show. E lo show è iniziato: inseguimenti, duelli, agguati proditori nella foresta. Mors tua vita mea, senza scrupoli, senza rispetto, senza pietà per l’Altro. Ho ucciso una ragazza di diciotto anni sparandole in testa. Ho sgozzato un altro concorrente calandomi alle sue spalle da un albero, silenzioso come un puma. Sono entrato in una zona a me sconosciuta, una zona fatta di azioni bestiali, di sofferenza altrui, di lotta per la pura sopravvivenza. Ma so che aver rotto tutti i tabù della società civile, avere ucciso essere viventi non potrà salvarmi da te. Tu mi ucciderai. Tu sei diverso. Ti ho visto arrivare sul luogo dove il dramma stave per avere inizio. Noi concorrenti non ci eravamo mai visti né parlati prima. Erano le regole, pena l’espulsione immediata dal programma. Sei arrivato per ultimo, scendendo da un’anonima berlina nera e mentre ti dirigevi verso il gruppo, mi hai fissato. Hai fissato solo me, ignorando gli altri, il conduttore, il mondo intero. Forse presagivi che sarei stato il tuo ultimo avversario e hai voluto farmi sapere che non avevo scampo. Ora mi è tutto chiaro. Tu non sei qui per il milione di euro. Non te ne frega un cazzo. Tu sei qui perché puoi uccidere delle persone impunemente, senza conseguenze. La tua linfa vitale è il sangue versato degli altri. Il tuo appagamento la luce della vita che si spegne negli occhi degli avversari. Il tuo futuro è la prossima vittima.
Ho lottato come una belva ferita in questa boscaglia sapendo che ti avrei trovato dietro l’ultimo angolo. E così è stato. Mentre correvo nel folto, ansante, ferito, graffiato da mille rami, ho visto il tuo volto pallido immobile che mi fissava tra le fronde oscure. Non era
un volto umano. Quello era il volto di un demonio. Urlando impazzito dal terrore ho lanciato una granata nella tua direzione e mi sono gettato a terra con le braccia sul capo per proteggermi dall’esplosione. Quando mi sono rialzato, tremante e stordito, eri scomparso. Ti ho ucciso ? Non ho avuto il coraggio di andare a vedere se avevo fatto centro, se dentro l’intrico di quella macchia giaceva il tuo cadavere. Ho ripreso la mia fuga senza senso, finchè sfinito sono crollato davanti alla porta di questo capanno e mi sono trascinato all’interno. Mi sembrava di strisciare su un tappeto di vetri. Il concerto dei miei dolori era insopportabile.
Ora afferro la pistola, il metallo freddo non mi dà alcun conforto. Sbircio tra le fessure, fuori è immobilità assoluta. Dopotutto, forse ti ho ucciso. Forse hai sottovalutato il mio istinto di sopravvivenza. Guardo ancora. Il muro di fogliame verde si increspa e compare un gruppetto di figure. Sono il conduttore e la troupe del programma. Si guardano intorno per un attimo, incerti. Poi il conduttore volge lo sguardo verso il capanno e impugnando il microfono strilla:
“Signor Rossi! Signor Rossi, è li dentro ?” Allontano l’occhio dalla fessura. Non rispondo, non ci credo, non è possibile.
“Signor Rossi, esca e si faccia vedere dal nostro magnifico pubblico! Lei ha vinto la puntata, complimenti!”. Guardo di nuovo. Sono ancora lì. Non me li sono sognati. Una gioia trionfale mi allaga il cuore. Spalanco la porta scalcinata ed esco barcollando. Alzo le braccia a raccogliere un immaginario applauso. Sul volto del conduttore persiste un sorriso finto come la sua dentatura. Ora sono vicino al gruppetto, ora vedo la tensione sui volti imperlati di sudore, le labbra tirate, la paura ancestrale negli occhi. Ora vedo la canna della pistola che spunta dalle foglie, come un letale serpente d’acciaio pronto a chiudere le zanne metalliche sulla preda. Ora vedo il tuo sogghigno diabolico mentre premi il grilletto.

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